Gracias a Dios, ¡nos fuimos!
OPUS DEI: ¿un CAMINO a ninguna parte?

Ricostruzione
Indice
Prologo
1. Presagi
2. Numeraria
3. Maturita' e liberta' interiore
4. Crisi di vocazione
5. Rinascita
6. Ricominciare: primo tentativo
7. Ricostruzione
FIN DEL LIBRO
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RICOSTRUZIONE
(18 anni nell'Opus Dei)

Autore: Aquilina

RICOMINCIARE: PRIMO TENTATIVO

Tornai a Roma, presso la mia famiglia d'origine che mi accolse con affetto, ma non molto attrezzata a supportarmi nello stato di devastazione in cui mi trovavo. Ero immersa nella depressione più profonda, scatenata ormai da due anni. Dipendevo dagli psicofarmaci e dalla terapia che avevo iniziato con uno psichiatra numerario, l'unica persona con cui la mia coscienza scrupolosa mi permetteva di parlare dei miei problemi. Ero priva di lavoro e, a trentadue anni, senza nessuna esperienza professionale nel mondo esterno, in una città che era ormai completamente estranea per me dopo diciassette anni di lontananza, con pochissime chances di poterne trovare. Soprattutto ero completamente svuotata: come avrei sperimentato presto, nessun lavoro, nessuna esperienza quotidiana sarebbe riuscita a restituirmi -almeno nel breve e medio periodo- quel senso di pienezza che provavo costantemente prima, quando stavo al mondo per salvare le anime ed avevo continuamente un filo diretto con Dio in persona e la convinzione di conoscere dettagliatamente la sua volontà. La richiesta di dispensa dagli impegni solenni presi in maniera perpetua venne una prima volta respinta, per offrirmi questa ulteriore possibilità di ritornare sui miei passi, poi finalmente accolta, come mi venne alla fine comunicato il giorno di venerdì santo del 1988.

In realtà, per un bel po' di anni ancora, non mi sarei sganciata dalla forza di gravità di quella mentalità e di quell'approccio col mondo, se approccio si può chiamare.

In questo, probabilmente, la mia esperienza differisce radicalmente da quella di altre persone che hanno avuto la lucidità e il coraggio di vedere e criticare dal di dentro gli aspetti negativi dell'Opus Dei, anche se credo che molte altre persone, silenziose e discrete proprio come l'Opera ci avrebbe voluto, abbiano alle spalle una storia simile alla mia.

A me sono stati necessari più di due anni, da quando ho preso dentro di me la decisione di andarmene, per ottenere la dispensa formale dall'incorporazione definitiva all'Opera. Ma ce ne sono voluti molti di più -più di dieci- per uscire dai condizionamenti mentali che la formazione dell'Opera mi ha provocato interiormente.

Me ne sono andata con la convinzione che l'Opera non potesse essere che santa e giusta, dato che contava sull'approvazione della Chiesa. L'educazione ricevuta nella mia infanzia ha pesato molto su questa mia impostazione mentale: spirito di obbedienza; diffidenza verso il proprio criterio e verso la propria capacità critica; sfiducia verso l'uso adulto e responsabile, in prima persona, della propria capacità razionale; distacco nei confronti delle normali esigenze fisiche; incapacità di decifrare i messaggi di allarme che arrivano dal proprio corpo e dalla propria psiche; irrisione delle conoscenze di base dei meccanismi psicologici, temute come minacce contro la visione soprannaturale e cristiana dell'esistenza… tutte queste cose le ho respirate nell'ambiente familiare della mia infanzia e mi sono state poi accuratamente rinforzate dalla formazione ricevuta nell'Opera. Il risultato di tutto ciò è stato che, prima di dubitare della Chiesa, di una sua istituzione, in quella situazione era normale che dubitassi piuttosto di me stessa.

Me ne sono andata pensando che ero io a non essere all'altezza. Ho dovuto lottare per perseverare nella mia richiesta di dispensa, tenere duro come non avrei mai creduto di esserne capace, ma avevo quel profondo malessere che mi ha aiutato, quella minaccia di dissolvimento interiore che mi urgeva e che mi dava forza. Non pensavo di stare combattendo una battaglia giusta e sacrosanta, stavo solo cercando di mettermi in salvo.

In questo sono stata una persona facile per l'Opera: pur nella mia mancanza di perseveranza, non ho provocato scandali, non ho criticato il sistema nel suo insieme, non ho accusato nessuno. Volevo solo essere lasciata in pace, non sentire più parlare di Opus Dei, di norme del piano di vita, del Padre, del Fondatore, di colloquio, di correzione fraterna…

In realtà ero ben lungi dall'essere moribonda, almeno spiritualmente, come mi sembrava in quel momento. In realtà la mia energia vitale, il mio attaccamento alla vita, alla salute, alla realtà, senza che io lo sospettassi lontanamente, avevano iniziato la loro riscossa. In quel periodo, a causa della forte depressione, mi succedeva spesso di immaginarmi a finire i miei giorni in un ospizio. In realtà -non potevo neppure immaginarlo- stavo iniziando un cammino di maturazione e di crescita, di lavoro su me stessa che mi avrebbe portato in un tempo lungo ma ragionevole -poco più di dieci anni- a recuperare la mia maturità, il mio equilibrio, la capacità di costruire la mia vita, di rispondere delle mie scelte, di godere dei miei piccoli, quotidiani successi.

Per questo racconto non solo della mia vita nell'Opera, ma anche degli anni che l'hanno preceduta e di quelli che sono seguiti. Quelli precedenti sono importanti per capire come è possibile che mi sia accaduto tutto questo, quelli seguenti sono importanti per capire come se ne può uscire, pure in casi come il mio in cui non si è conservata la lucidità per giudicare correttamente la realtà che si sta vivendo.

Qualche mese dopo il mio ritorno a Roma, avevo trovato un lavoro, insoddisfacente e frustrante, ma che mi dava pur sempre autonomia economica, come segretaria in uno studio medico. Dai miei due fratelli sposati, con figli piccoli e con i tipici problemi delle coppie giovani, non mi venne nessun aiuto nel crearmi una rete di amicizie e di conoscenze. Il fratellino più giovane, che all'epoca aveva tredici, quattordici anni, mal tollerava la nuova presenza in famiglia di quella sorella che non si era mai fatta viva prima di allora, e tutti i miei tentativi di farmelo amico naufragavano di fronte alla sua ostilità adolescenziale. Riuscivo a conoscere solo persone più strane e disturbate di me.

Da parte mia, a parte il tentativo di allargare le mie conoscenze ad elementi maschili, continuavo con uno stile di vita non molto dissimile da quello avuto fino ad allora. Non riuscivo a superare un pudore parossistico che mi rendeva impossibile indossare i pantaloni, accorciare qualche gonna, vestirmi in maniera più femminile ed attraente. Avevo smesso di usare il cilicio e la disciplina e finalmente dormivo su un normale materasso, ma mi era impensabile derogare dalla messa quotidiana e concedermi la lettura di libri non ortodossi, secondo i miei precedenti schemi mentali.

Eppure, anche se molto lentamente, qualcosa cominciava a muoversi. Cominciai a sperimentare il piacere di fare qualche acquisto di abbigliamento senza nessuna supervisione, di fare qualche regalo, spesso esagerato per compensare tutti quelli che non avevo mai fatto a nessuno dei miei cari, ai miei fratelli e ai miei genitori. Mi ricordo la prima volta che rimisi piede in un cinema, dove non ero più rientrata da quando mi ci avevano portata, da bambina, o qualche uscita a cena fuori con gli uomini un po' strani con cui riuscivo a far conoscenza.

Tutto questo stato di cose mi pesava dentro e non riuscivo ad elaborarlo, nonostante la terapia che, con grossi sacrifici, continuavo a permettermi. Il mio passato pesava così tanto sul mio presente che ero convinta che, se mai fossi riuscita a sposarmi, sarebbe stato solo con una persona che fosse passata per esperienze simili alle mie, con la quale avessi potuto condividere quelle esperienze senza tradire, con quelle confidenze, quell'Opus Dei alla quale mi sentivo legata da legami di una lealtà che sconfinava con l'omertà, dato che cominciavo a percepire alcune cose vissute come sbagliate, ma ancor più sbagliato mi sarebbe sembrato, allora, lavare fuori casa quei panni sporchi.

Il lavoro, alle dipendenze di un barone universitario dal carattere intrattabile, mi pesava sempre di più, ma non osavo lasciarlo perché tenevo troppo alla mia indipendenza economica, finché nell'estate dell'89, dopo quasi un anno e mezzo che lavoravo lì, mi fu offerta l'opportunità di partire per l'Armenia con un programma di cooperazione in soccorso ai terremotati.

Da quando me ne ero andata praticamente non avevo più messo piede in un centro dell'Opus Dei, salvo che presso la casa centrale di Roma, dove la mia presenza passava più inosservata per il continuo afflusso di pellegrini che vanno a pregare sulla tomba del Fondatore. Lì sono andata poche volte, all'inizio, per confessarmi, ma sapevo in partenza che le regole del gioco non prevedevano che io mi recassi liberamente presso qualche sede dell'Opera, né io ci tenevo particolarmente a girare nei paraggi. C'era però un'eccezione: con gli ex membri si rompono tutti i rapporti, almeno quelli più visibili, ma allo stesso tempo sono risorse su cui fare affidamento quando, come nel mio caso, si tratta di persone che non si pongono su un piano di conflittualità: allora capita che si proponga loro di collaborare a progetti di tipo pubblico, che non richiedono l'appartenenza all'Opera e che anzi sono pubblicizzati proprio per la capacità che l'Opus Dei così dimostra di avere di coinvolgere tutti i tipi di persone nei propri apostolati.

Avevano bisogno di persone per questo programma di cooperazione, ed io fui ben contenta di partecipare a qualcosa che somigliasse lontanamente alle attività piene di contenuti e di istanze che erano state mie in anni passati. In Armenia trascorsi sei mesi, e lì conobbi il numerario che sarebbe poi diventato mio marito. Apparteneva ancora all'Opera, ma era in grave crisi, e cominciò a corteggiarmi da subito. Io non avrei potuto non lasciarmi coinvolgere da quella corte, avevo troppo bisogno di qualcuno da amare e da cui essere amata, e questo mi fece superare tutte le difficoltà che ebbi fin dall'inizio, dato che lui, pur avendo vissuto nell'Opus Dei momenti molto difficili, non aveva ancora iniziato il suo percorso di separazione dall'Opera ed era ancora talmente impegnato nel travaglio di adeguarsi ad una nuova vita da essere incapace di investire altri sforzi ed altre risorse a costruire la nostra vita in comune.

Ho riflettuto molto, naturalmente, sul fallimento del nostro matrimonio, e so che le responsabilità sono equamente suddivise. Le mie sono state quelle di sposarlo senza essere disposta ad accettarlo per come era, con la convinzione che sarei riuscita a cambiarlo, ad adattarlo alla vita, ancorarlo alla realtà, e con la sicurezza di avere decisione, forza ed energia sufficienti per tutti e due. Solo dopo ho imparato che questo è un errore che avevano fatto prima di me molte altre donne, ma intanto il danno era fatto.

Tutto fu, sin dal primo momento, un grosso sbaglio. Nonostante tante sofferenze, continuavo a commettere errori. Le mie insicurezze mi portavano a cercare conferme fuori di me, troppo presto ancora, quando ancora non avevo completato il lavoro necessario per imparare a reggermi sulle mie gambe, a provvedere autonomamente ai miei bisogni, a dare a me stessa serenità, sicurezza, approvazione ed affetto. Ad essere autenticamente adulta, in una parola.

A 35 anni ero completamente impreparata per il matrimonio. Per me era un bisogno, non una libera scelta. Un bisogno per uscire dalla solitudine, per dare e ricevere amore, per avere un figlio, che è una necessità spesso improrogabile per una donna di quell'età, forse ancora di più nel mio caso che vedevo attorno a me solo macerie della vita passata.

Non sono stata disonesta, ma non ero ancora capace, nella mia inesperienza di vita e nel mio fare riferimento a luoghi comuni che ancora non avevo smontato, di rendermi conto della mia immaturità. La vicinanza e l'affetto di una persona bisognosa del mio aiuto, come io lo ero del suo, mi ha portato a sottovalutare difficoltà che pure avevo visto sin dal primo momento. In seguito ebbi anche l'opportunità di parlare dei miei dubbi con un sacerdote consultore della Sacra Rota, il quale mi disse che era possibile una nullità del nostro vincolo dovuta al fatto che quando lo avevamo contratto eravamo ancora entrambi in una situazione di forte immaturità psicologica e di destabilizzazione dovuta al radicale mutamento dell'orientamento delle nostre vite.

Non voglio fermarmi, per rispetto a mio marito e alla sua intimità, sui fatti concreti, in alcuni momenti veramente drammatici, che ci portarono alla separazione. Entrambi avremmo dovuto cambiare molte cose di noi stessi per riuscire a formare un'autentica coppia. Io ero disponibile a fare questo lavoro su me stessa, lui non aveva ancora maturato questa decisione per quello che lo riguardava, e comunque i tempi di evoluzione di ognuno di noi si sono rivelati estremamente diversi. Finché io ho tentato con tutti i mezzi di cambiare anche lui, il nostro matrimonio è andato avanti fra mille conflitti. Ad un certo punto ho realizzato che mi sarebbe stato impossibile cambiare mio marito se lui non avesse deciso di cambiare se stesso, e allora ci siamo separati.

A questo punto della mia storia si colloca, secondo me, l'inizio della mia uscita dall'orbita della mentalità clericale, ed in un certo senso è un debito che ho proprio con mio marito. Se avessi trovato un compagno più normale e passabilmente equilibrato, probabilmente avrei continuato, senza più essere dell'Opus Dei, a ragionare con quelle categorie mentali e a comportarmi secondo determinati modelli, come avevo fatto fino ad allora. Ma la disperazione, la destabilizzazione a cui lui, pure ancora molto legato a quella mentalità e a quei valori, mi aveva portato facendosi spesso paravento dietro a quel perbenismo e a quei pregiudizi pseudo-morali e fondamentalmente misogini nei quali avevamo continuato a riconoscerci hanno provocato un salutare corto circuito.

Dopo nemmeno otto anni dall'aver azzerato completamente il mio passato, mi ritrovavo di nuovo in piedi in mezzo alle rovine polverose della mia vita. Alla vigilia dei 40 anni, dovevo ancora una volta ricominciare da zero.

 

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