RAHNER, Karl
La penitenza della Chiesa
Edizioni Paoline, Roma 1968, 876 pp.
PRESENTACION
El libro está estructurado en dos partes. La primera, de 264 páginas, recoge 8 ensayos especulativos sobre la teología de la penitencia, publicados entre los años 1934 -1968. Todos estos artículos aparecen citados frecuentemente por los especialistas en la materia y han tenido un influjo notable en la reflexión teológica, particularmente el 2: «Verità dimenticate intorno al sacramento della penitenza».
La segunda parte (566 pp.) recoge 7 trabajos históricos publicados entre los años 1936 -1955. Se trata de artículos muy extensos, escritos con gran erudición y abundante «aparato bibliográfico», en diálogo con otros historiadores de la penitencia (B. Xiberta, B. Poschmann, P. Galtier, J. Grotz) o del pensamiento de los Padres (H.U. v. Balthasar y J. Danielou, sobre todo por lo que se refiere al pensamiento de Orígenes).
Además el libro ofrece una «Introducción»: K. Rahner, teologo della penitenza (46 pp.), redactada por Marranzini, responsable de la edición italiana.
OBSERVACIONES A LA INTRODUCCION
En estas páginas Marranzini presenta los artículos de K. Rahner, explica sus principales tesis (por ejemplo, sobre el perdón de las penas temporales y la eficacia de las indulgencias: pp. 25-46), y, en general, trata de defenderle: «Chi legge le pagine che il Rahner dedica all'argomento non trova neppure l'ombra di questi errori deplorevoli in se stessi e di grave nocumento per la salute della anime» (p. 21). Los «errores deplorables» a los que se refiere están señalados en la carta de la CDF del 24-VII-1966 firmada por el cardenal autor Ottaviani, que en el n. 7 decía: «Sacramentum Paenitentiae quidam explícare malunt tanquam medium reconciliationis cum Ecclesia, non satis exprimendo reconciliationem cum ipso Deo offenso. Contendunt etiam huic Sacramento celebrando necessariam non esse personalem confessionem peccatorum, sed solum functionem socialem reconciliationis cum Ecclesia exprimet e satagunt». K. Rahner guarda ciertamente un notable equilibrio en las tesis que formula en esta obra; pero esto no quita para que algunos de sus planteamientos hayan contribuido a crear confusión en la doctrina y en la pastoral de la Penitencia.
OBSERVACIONES A LA I PARTE
1. El primer ensayo, «Problemi della confessione» (23 pp., publicado en 1954), es la ponencia que el autor presentó en un congreso de teología pastoral. Aunque la intención «de fondo» parece ser la de exhortar a los fieles a recibir el sacramento con plena y sincera participación personal (afirma explícitamente que no quiere justificar la disminución de la confesión frecuente o de devoción), el lector de este artículo puede quedar un tanto confuso.
En primer lugar, por el estilo «polémico» que utiliza en algunas páginas (convendrá tener presente que el trabajo fue leído ante especialistas en teología pastoral), con afirmaciones poco afortunadas: «Non fu certo S. Giuseppe a costruire il primo confessionale. Per secoli non c'è stata la confessione di devozione. Un S. Agostino non si è mai confessato» (p. 51; cfr. en pp. 55-56 los casos "curiosos", verdaderamente lamentables, que se presentaban en algunos manuales de teología moral); o poco matizadas: «Dal secolo XI al XIII tutti i teologi insegnarono che questo sacramento non rimette la colpa davanti a Dio, ma ha altri effetti secondari» (p. 51); o equivocadas «Lo stesso S. Tommaso riteneva evidente e perfino obbligatorio che il penitente si accostasse a questo sacramento già giustificato per mezzo della contrizione» (pp. 51-52).
Además, a lo largo del artículo aparecen afirmaciones poco claras: «Il peccato in essa (en la confesión de devoción) non vien rimesso se non è già rimesso ex opere operantis» (p. 60). «Liberiamoci dal tacito pregiudizio che i sacramenti siano ordinati da Dio a renderci più facile e meno costosi gli atti personali. Esso deriva dal fatto che la teologia di oggi, al contrario della grande Scolastica medioevale, presenta unilateralmente la dottrina che per la giustificazione nella confessione basta la sola attritio, cioè dolore imperfetto, mentre senza la confessione l'attritio non basta. Non contrasto affatto questa tesi, dico solo che non giustifica il predetto pregiudizio. Per chi emette l'atto di attrizione non è difficile giungere alla contrizione o dolore perfetto. La vera difficoltà della contrizione è quella stessa dell'attrizione, cioè lo staccarsi effettivamente dal peccato. In altre parole, non ci viene risparmiato il vero dolore, tanto più che per il fatto che riceviamo il sacramento, non siamo dispensati dall'amore, cioè da quell'ultima forma che trasforma l'attrizione in contrizione» (p. 60). Detrás de estas afirmaciones que tratan de subrayar la necesidad de los actos personales de penitencia ¿qué noción de «amor» hay?. Cuando Rahner dice: «per chi emette l'atto di attrizione non è difficile giungere alla contrizione o dolore perfetto», tiene en cuenta el carácter sobrenatural de la contrición, posible sólo con el don de la gracia santificante? Está bien que subraye la necesidad de los actos personales del penitente, pero a veces da la impresión que tiene temor a confesar la eficacia objetiva del sacramento y «los milagros de la gracia» que éste puede obrar en el alma del penitente.
Por otra parte el artículo recoge ideas interesantes. Por ejemplo:
a) Sobre la necesidad de la confesión previa a la absolución dice: «La confessione dei peccati, come parte costitutiva del segno sacramentale, è ordinata alle parole di assoluzione del sacerdote. E' perciò essenzialmente richiesta, perché nell'agire umano normale e genuino la parola del perdono non deve cadere nel vuoto e nell'indeterminato, ma deve essere una parola cosciente. Il sacerdote, agendo da uomo libero, anche se per incarico del suo Signore, dever sapere cosa fa, a chi e perché rivolge la parola del libero perdono. Qui sta il vero e decisivo senso della confessione dei peccati e il fondamento della sua necessità» (pp. 64-65).
b) Sobre la dimensión cristológica y eclesiológica de la penitencia: «Se l'uomo d'oggi non vede il carattere specificamente cristologico ed ecclesiologico del sacramento, presto o tardi penserà che possa regolare da solo con Dio il problema dei propri peccati, perché in ciò starebbe secondo lui tutto il senso del sacramento» (p. 64).
c) Sobre la distinción "reato di pena — reato di colpa". En este artículo y en otros —es un tema de "fondo"—, el autor trata de subrayar que la pena temporal debe entenderse no sólo de modo "extrínseco", jurídicamente, como sanción determinada por la justicia divina o por las leyes de la Iglesia, sino ante todo de modo "intrínseco" a la persona, y que ésta debe cambiar interiormente, debe purificarse por el amor (no basta el mero cumplimiento "material" de la pena), para que desaparezca el reato de pena temporal: «Il reato di pena in realtà sono io stesso, io col mio egoismo, la mia durezza di cuore, la mia indifferenza e viltà, col mio fariseismo, con tutto ciò che s'identifica tanto con me da non notarlo e non riuscire a spogliarmene, mentre tutti, eccetto io, se ne rendono conto. Quale indicibile tormento si avrebbe allora nell'intimo della coscienza sino a che le cose non saranno mutate! Quali acerbi dolori si proverebbero sino a che non si sarà più o meno raggiunta una totale purezza e integrazione del nostro essere, secondo tutte le sue dimensioni, aspirazioni e strati, nell'amore di Dio!» (pp. 67— 68).
Tampoco faltan afirmaciones de recta doctrina: «In confessionale non vogliamo essere psicanalisti. Non è nostro compito: sarebbe insulsa ciarlataneria. Vogliamo essere soltanto sacerdoti, ma esserlo integralmente. Con la nostra azione personale cooperiamo con Dio, perché possa esprimere in modo storico e percepibile la sua efficace parola di perdono, non applicchiamo affatto un meccanismo magico... noi stessi possedimao una parola che nessuno psichiatra è in grado di pronunciare: la parola di Dio, che perdona il peccato» (pp. 70-71). «Non può accostarsi alla Comunione colui che sa veramente di trovarsi in stato di peccato mortale e non si è ancora riconciliato con la Chiesa» (p. 71).
2. El segundo ensayo, Verità dimenticate intorno al sacramento della penitenza (56 pp.), fue publicado en 1953. Es uno de los trabajos más citados en la teología de la penitencia elaborada en los últimos 40 años. En la introducción advierte que el título debe entenderse "cum grano salis". «La coscienza, che la Chiesa ha della fede, possiede sempre, come contenuto permanente nella sua memoria, molte più verità di quelle che le sono "presenti" in un determinato momento da noi arbitrariamente scelto. Ad essa infatti appartiene tutto il passato, che costituisce la Tradizione» (p. 73). Después comenta que la teología no puede pretender pensar de modo adecuado y en cualquier momento todo el contenido de la Tradición, que de hecho posee. Constantemente debe volver a poner delante de los ojos el contenido de la Tradición y reanimarlo; hay pues verdades olvidadas, que no son necesariamente aquellas definidas. No defiende que sean verdades que alcancen el más alto grado de certeza teológica, ni pretende decir que sean más importantes que la doctrina expresamente enseñada, predicada y meditada (cf. pp. 74 — 77). Y una vez hechas estas precisiones, pasa a "redescubrir" estas 5 verdades:
a) Aspetto ecclesiale del peccato. En este apartado trata de profundizar en el pecado como ofensa a la Iglesia. «Il peccato grave, senza dubbio, non lo esclude dalla Chiesa come fanno l'assenza del Battesimo, l'eresia e lo scisma, su in piano visibile e percepibile. Però non si può dire che il peccato, anche se non è né scisma né eresia, non abbia ripercussioni sull'intera Chiesa e non incida sulla missione sociale di ciascuno dei suoi membri» (pp. 76 — 77). Junto a esto hay afirmaciones confusas, que presentan a la Iglesia como pecadora: «Per quanto dipende da lui (del bautizado pecador) sotto un certo aspetto, rende peccatrice la Chiesa stessa» (p. 77). Esta idea no está aquí desarrollada; remite a K. Rahner, Die Kirche der Sünder, Friburgo 1948. El aspecto social del pecado le parece esencial para entender la penitencia en la Iglesia primitiva: «Non può comprendere la disciplina penitenziale della Chiesa Antica, chi non ha davanti agli occhi, in modo vivo e costante, l'aspetto ecclesiale del peccato» (p. 78). Presenta el pecado como ofensa a la Iglesia; como injusticia que ella castiga «con quella severità però, che è nello stesso tempo manifestazione della misericordia e della volontà salvifica di Dio» (p. 78). El autor trata de aplicar esta doctrina tanto al pecado mortal como al pecado venial. En los dos, no obstante la diferencia cualitativa esencial, ve una oposición a la voluntad de Dios, y por tanto, salvadas las debidas proporciones, ve también que van contra la Iglesia. «Impedendo la realizzazione dell'amore divino nell'uomo, (oltre ad arrecare il più delle volte alla comunità dei fedeli altri danni sociali facilmente comprensibili), affievoliscono la santità della Chiesa» (p. 79). El pecado provoca un descenso de la fuerza santificadora de la Iglesia en modo perceptible.
En conjunto este apartado (5 pp.) es bastante pobre; junto a planteamientos positivos (subraya la repercusión del pecado en la Iglesia), contiene otros poco precisos o confusos. Hubiera sido más correcto que el autor, en vez de utilizar la expresión "aspecto eclesial del pecado", escribiese: "aspecto antieclesial del pecado". Y que subrayase que en la Iglesia primitiva el pecado de uno de sus miembros no podía ser considerado como propio (por eso se le apartaba de la Eucaristía); y que, a la vez, la Iglesia sentía la herida de aquel miembro enfermo; para sanarlo le exigía el cumplimiento de obras de verdadera penitencia; contemporáneamente toda la Iglesia le ayudaba con la oración, las obras de penitencia y el buen ejemplo a reparar por el pecado. En algún caso se castigarían los pecados como "delitos" (con una pena de tipo "jurídico"); pero si la Iglesia imponía penas satisfactorias era, sobre todo, porque el penitente debía satisfacer por el reato de pena temporal, lo cual está unido a la consideración del pecado no tanto como ofensa a la Iglesia sino como «aversio a Deo e inordinata conversio ad creaturas». Estas ideas el autor no las ignora en otras partes del libro (cf. p. 85), pero aquí se echan en falta.
b) «Legare». En este apartado el autor trata de explicar el contenido de la expresión "atar" en Mt 16, 9 y 18, 18. Le parece insuficiente el planteamiento de algunos manuales que interpretan el término "atar" (correspondiente a "retener" en el Evangelio de San Juan 20, 22-23) como poder de denegar la absolución al penitente que se ha acusado ante el tribunal de la penitencia (cf. p. 81; en nota cita a J.B. Umberg y P. Galtier). Piensa que la concepción de un doble poder, alternativo, de atar o de desatar, es poco satisfactoria, y que fundamentalmente prolonga la tesis de los teólogos de la contrarreforma, que trataban con esto de demostrar el carácter judicial del poder dado a la Iglesia de absolver los pecados. Es partidario de la explicación de K. Adam y B. Poschmann, entre otros, para quienes "atar", en el lenguaje del Nuevo Testamento y en la concepción de la Iglesia primitiva, significa "proscrivere; mettere al bando" (p. 82). No se trata del concepto moderno de excomunión (pena eclesiástica regulada por el derecho canónico). Después de una culpa grave el bautizado pertenece aún a la Iglesia, está "dentro". Pero con el pecado, la pertenencia incancelable a la Iglesia está privada de su verdadero e íntimo sentido. La pertenencia al Cuerpo Místico debería ser siempre sensible y sacramental expresión de la posesión de la gracia. En cambio, el pecador continúa perteneciendo a la Iglesia según las dimensiones visibles, sobre el plano jurídico o confesional, pero no con plena sinceridad (cf. pp. 83-84). La Iglesia para salvar al pecador desvela en el plano visible la situación en la que se encuentra por la culpa del pecado. «Giudicando la Chiesa "separa", secondo il duplice significato del verbo greco krìnein» (p. 84). «Da qui deriva anche che "legare" e "sciogliere" non sono i due membri di una alternativa, ma piuttosto le due fasi di un unico atto, cioè della reazione della Chiesa contro il peccato di uno dei suoi membri. Il suo intento è di "legare", semplicemente per poter "scioglere"» (p. 84). Y el "desatar" está condicionado únicamente por la presencia de la contrición. Por tanto, la intención del autor parece ser la de mostrar que el ejercicio del poder de "atar", se dirige a ejercitar también el poder de "absolver".
El mismo Rahner se plantea una doble objeción:
a) La tesis que sostiene que "atar" es un momento interno y necesario del perdón sacramental, es falsa, o por lo menos es un recuerdo de mero interés histórico; algo que ha desaparecido en la praxis actual de la penitencia.
b) Esa tesis no puede aplicarse a la confesión de devoción, que es verdadero sacramento; por tanto es falsa.
Después trata de resolverlas:
a) Respecto a la primera objeción sostiene que la Iglesia en nuestros días continúa "atando" al cristiano culpable de pecado mortal. No con una pena ferendae sententiae sino latae sententiae; pero el efecto es el mismo: hay una disposición jurídica que excluye al pecador de la comunión eucarística. Por esto, bastaría que se añadieran algunas disposiciones que hicieran visible la situación del pecador y estaríamos de nuevo ante la penitencia pública (esta penitencia según el autor es simplemente la única y verdadera penitencia sacramental, en contraposición a penitencia no sacramental, es decir, aquella practicada en privado, con oraciones, ayunos y limosnas). «L'esclusione, che costituisce la prima fase della reazione della Chiesa alle colpe gravi dei suoi membri, esiste dunque oggi come nei prime secoli del cristianesimo: è divenuta semplicemente più discreta e nascosta e perciò l'abbiamo "dimenticata". Tale discrezione ed oblio sono dovuti al fatto che purtroppo non si accostano più alla Eucaristia quelli che avrebbero il diritto e molti, fortunatamente, vanno a confessarsi senza esservi tenuti» (pp. 90-91). Y concluye: «In tal modo la Chiesa "lega" il cristiano in stato di peccato mortale, e per di più su un piano visibile, che non bisogna confondere con il "foro esterno": la visibilità di cui parliamo, è quella dimensione della Chiesa in cui si ricevono i sacramenti, segni "visibili" della grazia» (p. 91).
Esta explicación no es del todo convincente. La actuación del ministro de la penitencia aparece de modo distorsionado: debe "atar" siempre, pero en realidad no "ata" nunca. El pecador ya está atado por la ley general de la Iglesia; el ministro sólo se limita a reconocer la situación del pecador respecto a la Eucaristía. Lo único que hace es absolver. Y esto no es exacto. Podría no absolver si juzgase que el sujeto no está arrepentido, o no quiere confesar sinceramente sus pecados, o no quiere evitar el pecado en el futuro, o no quiere satisfacer.
b) A continuación pasa a examinar la segunda objeción: «La confessione di devozione, si afferma, comportando una vera remissione dei peccati, è già sacramentale. Tuttavia non esiste in questi casi alcuna possibilità di "legare". Quindi, malgrado tutto, il "legare" non appartiene alla essenza della disciplina penitenziale della Chiesa, non rappresenta la prima fase necessaria del giudizio salutare, col quale la Chiesa reagisce ai peccati dei suoi membri. Almeno si dovrà concedere che tale aspetto manca del tutto nella confessione di divozione» (pp. 92-93). La dificultad le parece seria. Reconoce que en la teoría que el propone no se puede hablar de "atar" en sentido estricto los pecados veniales.
Para defender su postura sostiene que la misma dificultad encuentra la teoría de la naturaleza judicial de la absolución, en la que tampoco se puede hablar de "atar" el pecado venial. (Como se expresa confusamente, no queda claro si en su crítica a la tesis de la absolución como acto judicial llega a afirmar que el penitente sin pecados graves que se acerca a la confesión de devoción ya ha obtenido el perdón (siempre) antes de recibir la absolución; parece que sí lo afirma (cf. p. 94). «Comunque s'intendano i testi sul potere conferito da Cristo, che formano la base scritturistica del sacramento della penitenza, è impossibile "legare" o "ritenere" veramente i peccati veniali. Di conseguenza la difficoltà prospettata non riguarda solo il modo di vedere, ma si riferisce ad ogni teoria. Infatti bisogna sempre da una parte riconoscere che la struttura del sacramento della penitenza è tutta orientata alla remissione delle colpe gravi e dall'altra ammettere, per la pratica e la dottrina della Chiesa, che la penitenza può essere, sia pure in modo secondario e derivato, un mezzo sacramentale per cancellare le colpe veniali» (p. 94). Como he dicho antes, me parece que esto no es cierto, pues los pecados veniales confesados sin verdadero arrepentimiento, o sin propósito de evitarlos en el futuro, pueden y deben ser "atados" por el ministro; éste deberá ayudar al penitente a alcanzar las debidas disposiciones, pero si el sujeto no rectificase no podría pronunciar las palabras de absolución sobre dichos pecados. En conclusión: es poco claro y convincente cuando sostiene que es imposible "atar" y "desatar" verdaderamente los pecados veniales, y que sólo se puede hablar de "atarlos" por analogía. (Según el autor, quien peca levemente no se separa de la vida íntima de la Iglesia, "vaso del Espíritu Santo", no renuncia a la caridad, «ma ne neglige la perfezione e il fervore»; y esto supone una cierta separación; por esto cabe el uso analógico de la expresión "atar": la Iglesia reacciona de modo "parecido" ante el pecado grave o leve).
Además, siempre entiende «atar — desatar» en relación con el perdón de la culpa, sin tener presente que el sacramento se ordena también a la remisión de la pena (eterna y temporal) merecida por el pecado. En la confesión de pecados veniales se «desata» sacramentalmente la culpa venial y parte de la pena temporal, precisamente a través del juicio de gracia del ministro, que impone una pena satisfactoria y medicinal.
En conclusión: su exégesis del término «atar» ofrece muchas dificultades. Ante la pregunta, si su teoría no le servía para interpretar la praxis sacramental de la Iglesia, ¿por qué no la dejó de lado?, pienso que habría que responder: el autor estaba aferrado a su "sistema". Esto se comprende mejor después de leer el apartado «Scioglierette sulla terra e nel cielo», del que trataré más adelante, en 1.2.e).
c) La «materia» del sacramento della penitenza. En este apartado el autor trata de exponer la «verdad olvidada» que se encierra en la tesis tomista acerca de la «materia» de la penitencia, en contraposición a la tesis escotista que veía en los actos del penitente una simple condición previa para recibir la absolución, y a la tesis de los reformadores protestantes: la penitencia no es sacramento porque no comporta ninguna materia; consiste únicamente en «palabras», en la predicación eficaz del evangelio del perdón. Concretamente Rahner afirma: «Nell'insieme della disciplina penitenziale l'attività personale del penitente contribuisce efficacemente alla remissione del peccato; non è solo una condizione estrinseca (come del resto, secondo il nostro Dottore, avviene nel battesimo). Una vera ispirazione, si potrebbe dire, portò S. Tommaso a questa sintesi. Gli venne dal suo profondo intuito teologico, che lo spingeva a far compenetrare il più intimamente possibile i due momenti della giustificazione, quello personale e quello sacramentale, e lo conduceva a non accettare due "vie" disparate della giustificazione, ma ad ammettere l'elemento sacramentale e l'elemento personale, nell'interno della Chiesa e davanti ad essa, come due fasi di un unico processo che si richiamano e determinano a vicenda. Questo modo di vedere è d'importanza fondamentale per tutta la teologia» (pp. 103-104).
En conclusión: el autor sostiene la doctrina de S. Tomás (los actos del penitente son la «materia» de la penitencia), tratando de subrayar el significado y la eficacia de los actos personales del penitente en la constitución intrínseca del signo sacramental. En la penitencia el sujeto no recibe pasivamente la gracia. El penitente «pone» parte del signo sacramental; por tanto él es también causa instrumental de la gracia (cf. pp. 103-107). Este apartado me parece doctrinalmente correcto.
d) La preghiera della Chiesa. Es una breve reflexión sobre las oraciones (Misereatur e Indulgentiam), que acompañan a la absolución sacramental (Ego te absolvo...). El autor resalta la intervención de la Iglesia primitiva en el proceso penitencial; y recuerda que el arrepentimiento interior del pecador, es también obra de la Iglesia orante.
e) «Sciogliere» sulla terra e nel cielo. En este ensayo el autor trata de interpretar los textos de Mt 16, 19 y 18, 18, dándoles un alcance más amplio que el que aparece de la simple relación con Io 20, 22 (poder de perdonar los pecados). Insiste en que el poder de desatar no es un acto alternativo al de atar. La Iglesia ata y desata al pecador precisamente del mismo lazo que ella misma le había impuesto (cf. p. 118). Concretamente dice: «La stessa struttura grammaticale ci dà questo senso, perché nel contesto non si ha alcuna allusione ad altri legami da sciogliere. Tale interpretazione spiega esaurientemente il testo, bisogna quindi preferirla ad ogni altra» (p. 119).
Después de repetir la explicación del término atar que dio en p. 84 (la Iglesia en el plano público y sacramental hace percibir oficialmente la distancia establecida por la culpa non sólo entre el hombre y Dios, sino también entre Cuerpo Místico y miembro pecador), ofrece esta explicación eminentemente eclesial del término desatar: «La parola del Signore ci dice che questo avviene (que la culpa es remitida ante Dios y el pecador es desatado también en el cielo) perché la Chiesa scioglie il peccatore "sulla terra" da quei legami che essa stessa aveva imposto e dalla loro causa, cioè dal carattere ecclesiale della sua colpa (el cursivo es mío). Perché solo così è possibile ed ha significato l'azione della Chiesa» (p. 115). Antes ha declarado que el lazo que "ata" al pecador tiene un doble elemento: uno que se origina con la culpa misma y otro que es establecido por la Iglesia con un acto propio. Pero no deben entenderse como separados: «Questi due momenti s'intrecciano fra loro come l'essere e la sua manifestazione, come un oggetto e la sua espressione costitutiva» (p. 119). Esta distinción resulta un tanto artificial. Según el autor la Iglesia no perdonaría directamente el pecado en cuanto ofensa a Dios, sino en cuanto ofensa a la Iglesia (esto es "desatar sobre la tierra"). Y precisamente por esta acción de la Iglesia se remite el pecado en el cielo: «Con ciò si asserisce che il perdono nel cielo non è un semplice presupposto della remissione del peccato sulla terra, ma piuttosto anche un suo effetto: quando voi sciogliete sulla terra, e perché voi lo fate, Dio scioglie anche nel cielo» (pp. 119-129).
Detrás de estos planteamientos se encuentra la tesis de M. de la Taille y B. Xiberta (res et sacramentum de la penitencia es la reconciliación con la Iglesia), y el pensamiento de otros autores (P. Anciaux, K. Adam, B. Poschmann), quienes reflexionando sobre la praxis penitencial de la Iglesia primitiva afirmaron que la reconciliación con la Iglesia es el efecto principal de la absolución, por medio del cual se pueden conseguir todos los demás, entre ellos la remisión de la culpa ante Dios (cf. p. 121). «L'uomo riparando l'offesa fatta alla Chiesa (sacramentum: sciogliere sulla terra), viene riconciliata e riamesso in essa (res et sacramentum: pax— et communio cum Ecclesia) ed acquista così necessariamente una partecipazione nuova e più profonda allo Spirito della Chiesa, che perdona e giustifica davanti a Dio (res sacramenti: la pace con Dio)» (p. 124).
La tesis es muy sugestiva, pero no consigue explicar cómo es posible reparar en primer término la ofensa hecha a la Iglesia, pues ésta consiste en una herida (separación del miembro pecador) que es consecuencia del pecado en cuanto ofensa a Dios y rechazo del Amor y de la Ley de Cristo. La curación de esta herida, es decir, la reparación de la ofensa eclesial, ontológicamente sólo es posible en el hombre sanado por la gracia, en paz con Dios. Por esto parece más razonable la tesis de S. Tomás que ve en la reconciliación con la Iglesia un efecto posterior a la absolución (res et sacramentum), y al perdón del pecado en cuanto ofensa a Dios (res tantum). En conclusión: el autor no explica bien en qué consiste la ofensa a la Iglesia y la reconciliación con la Iglesia. En realidad parece identificarlas con la absolución (sacramentum: «sciogliere sulla terra»). Todo su planteamiento depende en último término del «sistema» eclesiológico y sacramental por el que ha optado, según el cual la Iglesia es el sacramento originario. La eficacia de todos los sacramentos (res et sacramentum con dimensión esencialmente eclesial) depende de la inserción que estos operan en la Iglesia (cf. pp. 124 -125). El «sistema» ofrece luces y sombras. Y en el fondo no tiene presente que el verdadero sacramento originario es Cristo, no la Iglesia.
3. El tercer ensayo lleva este título: «Significato della confessione frequente di devozione» (18 pp., publicado en 1934). El autor pretende resaltar el significado de la confesión frecuente de devoción, insertándola armónicamente en el conjunto de la vida espiritual. Justifica esta práctica en la Iglesia, y la ve como un medio de lucha contra el pecado y de auténtico desarrollo de la vida espiritual.
El autor insiste aquí en una idea que repite en diversas partes del libro: no está claro que la remisión del pecado venial sea el fin específico de la confesión de devoción (cf. pp. 135-136). Su tesis es la siguiente: «I peccati di chi vive in stato di grazia sono già rimessi per mezzo del dolore imperfetto. La confessione di devozione per sé importa, sempre e in ogni caso, la remissione sacramentale di una colpa veniale già cancellata dal pentimento, perché senza di questo è impossibile qualunque remissione di peccato, anche nella confessione. Ora poiché non v'è alcun obbligo di tale confessione, non si può comprendere come questa possa essere giustificata solo da un effetto, che sempre e in ogni caso è già dato senza di essa» (p. 135; el cursivo es mío). Entonces, ¿cuál es el fin específico de la confesión de los pecados veniales? ¿Por qué no tiene en cuenta que, en algún caso, la gracia sacramental recibida tras la confesión de devoción (es decir, con la absolución) aumenta «ex opere operato» la gracia y la caridad y, por tanto, hace posible la detestación virtual de pecados veniales que el sujeto quizá no tuvo antes explícitamente presentes y, por tanto, no detestó actualmente, o no estaba arrepentido de ellos (con propósito firme de evitarlos en el futuro)? ¿Qué motivos se pueden dar para practicar la confesión de devoción, si los pecados veniales se pueden perdonar recibiendo otros sacramentos (la Eucaristía, por ejemplo), y avivando la caridad? La tesis: «La confessione di devozione per sé importa, sempre e in ogni caso, la remissione sacramentale di una colpa veniale già cancellata dal pentimento, perché senza di questo è impossibile qualunque remissione di peccato, anche nella confessione» me parece muy confusa.
El autor, por otra parte, no deja de afrontar el tema de la eficacia sacramental de la penitencia: «La remissione del peccato non è operata dalla pietà e dal pentimento dell'uomo, ma dalla libera misericordia di Dio. Sebbene ciò valga di ogni remissione di peccato, anche quella grazia operata dal pentimento soggettivo, elevato naturalmente dalla grazia, si manifesta più chiaramente nella confessione, perché qui la remissione avviene visibilmente e storicamente. La confessione concede remissione e grazia, che è diversa e indipendente da quella acquistata mediante il dolore» (p. 141). Muestra cómo los demás sacramentos no son ante todo «penitencia y remisión del pecado» (cfr. p. 142). Recuerda que no basta el «dolor» del hombre, que el dolor no lo hace todo. Hace falta la confesión: «Questo abbandono dell'uomo al giudizio di Dio Santo», y que se escuche «la parola di perdono di Dio distinta dal dolore dell'uomo» (cfr. p. 143). Con todo esto valora la eficacia del sacramento y el sentido de la confesión frecuente: «Per mezzo di essa si può andare incontro il più spesso possibile al perdono di Dio, mentre questi manifesta del modo più evidente l'assoluta gratuità della sua grazia» (p. 146). En conclusión: el autor justifica la práctica de la confesión frecuente, ante todo como «ejercicio de una actitud fundamental del cristiano frente a Dios que ofrece su perdón» (p. 145). El capítulo contiene muchas reflexiones de interés, pero no consigue explicar la eficacia de la absolución y de la penitencia sacramental impuesta por el confesor en la remisión de la culpa y de la pena temporal merecida por el pecado venial. Este último aspecto no lo considera seriamente.
4. «La colpa e la sua remissione al confine tra la teologia e la psicoterapia» (24 pp., publicado en 1953). En este artículo el autor trata de establecer la diferencia entre la acción de la Iglesia y el tratamiento della psicoterapia respecto a la culpa y su remisión. Es es el ensayo más filósofico de todo el libro y refleja la antropología de K. Rahner.
El autor profundiza especulativamente en la esencia de la culpa, su conocimiento (utiliza un lenguaje más bien "críptico"), su remisión en sentido teológico y su superación en la propia intimidad. Junto a ideas interesantes y válidas, presenta otras de modo confuso (sobre todo por el uso del lenguaje que hace), o parcialmente. Por ejemplo:
a) Analiza de modo negativo y reductivo el «dolor del alma» que comporta la penitencia (como «pasividad dolorosa»). «Il segno costitutivo del peccato, l'incarnazione dell'azione personale della persona primigenia nel suo mezzo concreto, si chiama in linguaggio teologico dolore. Il segno costitutivo dell'atto peccaminoso necessariamente si ripercuote in modo doloroso sulla persona, perché il mezzo non è del tutto indifferente, né è pura possibilità dell'espressione personale, ma ha delle strutture aprioristiche indipendenti dalla libertà della persona. L'azione personale primigenia perciò, quando si concretizza in questo mezzo contrariamente alle sue strutture, esperimenta come conflitto e come dolore la resistenza delle strutture del mezzo, che è sempre necessariamente il mezzo della passione della persona» (p. 160). («Il mezzo — dice en p. 157 — è formato dall'insieme della sua corporeità psichica e della sua psichicità corporea»). No considera que el «dolor» que acompaña a la culpa teológica no es sólo el «signo constitutivo» de la culpa; también puede ser signo positivo del arrepentimiento, que va unido (precede) al perdón de ésta (cf. p. 165). Tampoco considera que en la justificación el «dolor» — en sentido específico — no es un «sentimiento» (no es pasión sensible sino acto de la voluntad, acto de la virtud de la penitencia, dice S. Tomás); no es provocado desde el exterior (ante el contraste con la norma moral, o al contemplar las consecuencias sociales del pecado), o desde el interior (dependiente de reacciones psicosomáticas, de diversos estados anímicos). El "animi dolor" es propiamente un acto de la voluntad, que se aparta del pecado y "activamente", con obras de penitencia, quiere destruir la culpa y sus consecuencias (reparar, expiar, satisfacer en Cristo). Esto es lo específico de la penitencia.
b) Afirma claramente que sólo Dios puede liberar de la culpa como tal — ofensa a Dios — (cf. p. 166). Pero cuando trata de explicar la superación del «dolor» (el autor, como hemos señalado, habla del dolor de un modo que se presta a confusiones: «malattia, pressa nel senso più vasto della parola» (p. 167), considera fundamentalmente el remedio psicomédico (pp. 167-169). De todas formas al final no deja de decir que «il dolore spesso, anche se non sempre, non si può espellere dalla persona, cioè dal sumo mezzo, senza una conversione — metanoia — nella persona primigenia» (p. 169).
c) Contempla la posibilidad del «dolor» sin culpa personal (dolor debido únicamente a causas exteriores) (cf. p. 165); pero no profundiza en el sentido patológico del «dolor» (de la culpa), que se da en algunas personas, y que en realidad es provocado por una culpa objetiva, pero que no se reconoce y confiesa ante Dios, sino que se oculta culpablemente en el interior, mediante un proceso di insubconscienzación, con lo cual se termina separando el dolor de su verdadera causa, y se facilita el «arrastre» o la aparición de esos estados anímicos — un vago sentimiento de culpa, sin causa aparente — ante situaciones conflictivas de la vida.
Personalmente diría (tras considerar el uso del término «dolor» que hace Rahner): debe distinguirse entre el pecado (la culpa considerada ontológicamente ) y su experimentación psicológica. Esta a veces puede estar unida a una enfermedad psíquica, o ser causada por dicha enfermedad, sin verdadera culpa. Normalmente la conversión y el perdón de la culpa sanan (curando la raíz del mal) del "dolor" (con el significado dado por Rahner: sentido de la culpa, reacción anímica ante influjos externos, a su vez determinados por el pecado cometido) al hombre «arrepentido» (apartado con la voluntad del pecado: animi dolor, que puede o no ser experimentado sensiblemente), que confiesa sus pecados, tiene la voluntad de reparar con obras de penitencia ("dolorosas", sí, y que se prolongan en el tiempo; esto no es algo negativo, sino positivo, pues hechas por amor y en Cristo Jesús, tienen valor redentor) y recibe con fe las palabras de absolución. Pero si nos encontráramos ante una persona que experimenta patológicamente el sentido de la culpa (inexistente o ya perdonada), entonces, debería acudirse al médico, a quien compete la curación de la enfermedad.
d) El autor trata de modo tal las dificultades que se presentan a la hora de juzgar la propia culpa (cf. pp. 161-165), o la de los demás (lo que hay en el corazón del hombre es un misterio reservado a Dios), que un lector poco preparado podría pensar que es imposible conocer la propia conciencia, o que sólo Dios, tras la muerte, puede juzgar. Ciertamente, a veces, puede ser difícil juzgar la moralidad de los propios actos; pero si habitualmente fuera imposible reconocer la propia culpa, grave o leve, ¿qué sentido tendría la exhortación de la Iglesia al examen de conciencia previo a la confesión, y a la confesión sincera, integra, de los pecados ante el ministro de Cristo y de la Iglesia? Si al hombre le resultase imposible reconocer la gravedad de sus pecados, porque «difícilmente puede conocer perfectamente y sin error», llegaríamos a afirmar la existencia de un mundo de pecado, en el que no hay «culpables». El pecado existiría pero no podríamos saber quien lo comete. ¿Quién debería hacer penitencia? ¿A quién se dirigía Jesús cuando dijo: «Si vosotros no hiciereis penitencia, todos pereceréis igualmente» (Lc 13, 3)? ¿A quién se dirigían los Apóstoles cuando exhortaban: «Arrepentíos y cambiad de vida para que sean cancelados vuestros pecados» (Act. 3, 19)?
5. En los tres capítulos siguientes K. Rahner presenta su doctrina sobre las indulgencias: Trattatelo teologico sull'indulgenza (22 pp., publicado en 1955); Osservazioni sulla teologia delle indulgenze (23 pp., publicado en 1949); Sulla dottrina ufficiale odierna dell'indulgenza (45 pp., publicado en 1968). Su pensamiento puede esquematizarse así:
a) La «pena temporal» (que se satisface por medio de las indulgencias) es presentada no tanto en relación a la inordinata conversio ad creaturas (al desorden «exterior» causado por el pecado), sino como rechazo de la realidad creatural, consecuencia y castigo del pecado en el hombre (es decir, en relación al desorden «interior»). No quiere negar que la pena temporal sea algo impuesto por Dios (cf. p. 176), pero la considera esencialmente como consecuencia dolorosa del mal uso de la propia naturaleza o de la realidad que le rodea. «Noi definiamo "pene temporali" simile dolorosa reazione alla colpa da parte della stessa natura dell'uomo e del suo ambiente esterno» (p. 176). Después añade: «Nella concretezza, in cui simile situazione dell'atto colpevole viene determinata da Dio e non da noi, emerge in tutto il proprio valore la libera disposizione divina sulle pene per il peccato. Tale pena, come reazione della realtà extrapersonale (sia fuor o dentro l'uomo) alla colpa, è quindi anche una pena imposta "dall'esterno", pur restando vero che è stata proprio la colpa dell'uomo a provocarla» (p. 177).
b) Considera que el perdón de la pena temporal (teniendo en cuenta su naturaleza intrínseca) no puede obtenerse desde el exterior, dejándose aplicar externamente unos méritos, o cumpliendo materialmente una pena sin que cambie realmente, sin que "madure" la persona (que corresponde a la gracia y se separa efectivamente del pecado y de sus consecuencias, y crece en el amor); el amor perfecto hacia Dios y hacia el prójimo cancela toda la pena temporal. «Il condono della pena temporale ad opera di Dio, un perdono che esiste realmente e deve esistere nel significato sopra accennato e sulla base dell'essenza dell'oggetto in questione, non potrà essere interpretato come un perdono da una pena imposta solo dall'esterno, completamente staccata dalla costituzione etica dell'uomo (a prescindere dalla sua precedente azione colpevole), quasi venisse condonata più o meno nel modo che è proprio di una amnistia civile (che "grazia" nella stessa maniera coloro che si sono migliorati e gli irrecuperabili). Se la situazione stesse in questi termini, dovremmo considerare la pena temporale come una pena vendicativa solo esterna, che permette a chi la subisce di restare identico a quello che era prima. Un simile condono non farebbe altro che togliere all'uomo la possibilitàa di attuarsi veramente in maniera sofferta attraveso tutte le dimensioni della propria esistenza» (pp. 180-181; cfr. pp. 224-225).
c) Este planteamiento le ayuda a entender de qué depende que en el sacramento de la penitencia se perdone más o menos pena temporal. En cambio encuentra dificultades para explicar el «optimismo» de la Iglesia acerca de los efectos del Bautismo: «La Chiesa insegna, sulla base di una tradizione che risale al tempo dei Padri, che Dio non è affattto disposto a concedere senz'altro a colui il quale ha commesso un peccato dopo che il battesimo, cancellando ogni colpa, lo aveva reso membro della santa Chiesa, tutta la grazia concreta, offrendogliela nell'atto dell'accadimento sacramentale, quella grazia cioè che sarebbe necessaria a realizzare il processo di trasformazione e di integrazione, che sconterebbe e, quindi, cancellerebbe le "pene temporali" senza nessuna sofferenza, in un attimo beato di trasfigurazione totale dell'intera esistenza umana. E' questa un'esperienza fin troppo netta in noi stessi. Perciò, da questa visuale, torna molto più difficile spiegare come mai, secondo la dottrina tradizionale, il battesimo di un adulto possa rappresentare il condono di tutte le pene temporali» (pp. 177-178). En esta misma línea llega a afirmar: «La grazia divina nel battesimo offre bensì in una sola volta tutto quello che è necessario per tale superamento totale del peccato, ma che rimane ancora incerto se l'uomo sfrutta realmente sino in fondo la possibilità offertagli (e che nel sacramento della confessione come tale no gli viene presentata affatto nella stessa maniera)» (p. 178).
d ) Después de haber asentado estos principios concluye: «Già su questa base si può capire come una indulgenza, comunque se ne debba ancora definire l'essenza precisa, debba essere un aiuto per questo amore perfetto che cancella tutte le pene del peccato, ma non debba essere "un mezzo", che ci risparmi di dover percorrere l'unica via che si adatta alla nostra natura, quella cioè della ristrutturazione degli "avanzi" del nostro passato ("reliquiae peccatorum")» (p. 182).
e) La acción de la Iglesia que ayuda a sus hijos a alcanzar la remisión de la pena temporal de sus pecados es considerada fundamentalmente como oración de intercesión, que apoya y refuerza la oración del fiel que desea obtener la remisión de la pena temporal de sus pecados (cf. pp. 185-87, 190), oración que siempre es escuchada por Dios. E insiste: «Una simile preghiera non rimette, non "condonna" le pene del peccato con un atto d'autorità, quasi fosse la semplice "amnistia" di un castigo imposto solo dal di fuori, quasi che una simile punizione servisse a rivelare la sovranità della legge e niente altro. La Chiesa, come ha spiegato senza mezzi termini il Tridentino, non si attribuisce un simile potere d'amnistia per una punizione imposta solo dall'esterno, ("vendicativamente") nel sacramento della penitenza, sebbene sia proprio in tale sacramento che essa esercita il suo potere di legare e sciogliere» (p. 189).
f) El «tesoro de la Iglesia» es identificado con la voluntad salvífica de Dios, es Dios mismo en la medida que tal voluntad vive en Cristo (cf. p. 185). Pero no es un fondo del que se puede sacar algo y pagar por tanto de pena (cf. p. 188). Sugiere que no se hable del tesoro de la Iglesia, para evitar malentendidos, pues este tesoro en realidad es «ipse Christus Redemptor» (p. 272).
g) Respecto a la eficacia de la indulgencia subraya que ésta sólo actúa en la persona que presenta una sincera disposición espiritual de penitencia. Por tanto, aunque la Iglesia sea siempre escuchada, el efecto de la indulgencia depende del sujeto, y jamás es posible saber cuándo esta oración alcanza su fin (cf. p. 190).
En estos artículos — siguiendo a B. Poschmann — el autor presenta también la historia de las indulgencias. Sostiene que las primeras indulgencias (siglo XI), además de ser absoluciones deprecativas para la remisión de la pena temporal ante Dios, condonaban parte de la pena eclesiástica (pena jurídica), lo cual dio origen a la doctrina del derecho jurídico y jurisdiccional de la Iglesia de disponer del tesoro que ella posee (cf. pp. 204 — 205). Por esto afirma que algunos autores (S. Alberto, S. Buenaventura, S. Tomás) pensaron que la remisión de la pena temporal podía darse a través de un acto jurisdiccional, de disposición autoritativa del tesoro de la Iglesia, y por tanto de eficacia infalible (cf. pp. 206-207). Rahner no está de acuerdo con esta interpretación y dice que no se puede confundir «pena eclesiástica» y «pena temporal que merece el pecado ante Dios», ni fundar la eficacia de la indulgencia plenaria en la remisión de la pena temporal en la segura eficacia de un acto jurisdiccional de la Iglesia como sucede en el sacramento de la penitencia respecto a la remisión de la culpa (cf. pp. 207-208).
Por tanto rechaza la teoría de Billot sobre las indulgencias, por parecerle demasiado jurídica y materializada, como si se tratase de recomponer con bienes materiales (cf. p. 208). Sostiene que la Iglesia no puede disponer judicialmente, autoritativamente de su tesoro, pues sólo tiene un derecho moral a usar ese tesoro (parece que el autor quiere resaltar así la libertad de Dios en la distribución de la gracia y la libertad del hombre en acogerla) (cf. pp. 208 — 209).
No le parece bien fundado atribuir el poder de conceder indulgencias a los mismos textos que fundan el poder de remitir los pecados en el sacramento de la penitencia: «Se questa argumentazione avesse valore, dimostrerebbe che il potere di assolvere dalla pena temporale per via giurisdizionale e quindi certamente efficace, sarebbe un momento costitutivo del potere sacerdotale conferito in questi testi» (p. 215). Tampoco se puede afirmar que si la Iglesia no concede con un acto juridisccional el perdón de toda la pena temporal es porque autolimita su poder, pues no hay fundamento para afirmarlo (cfr. pp. 216 — 217).
En el último artículo, «Sulla dottrina ufficiale odierna dell'indulgenza», trata de hacer compatibles sus ideas con la noción de indulgencia que la Iglesia ha dado en la Const. Apost. «Indulgentiarum doctrina», (ID) del 1 — 01 — 1967: «L'indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi».
Rahner subraya que en ID jamás se utiliza la expresión «per modum absolutionis», que nunca se habla de ejercicio de la «potestas iurisdiccionis», sino de «intervento della Chiesa». Pero es evidente que ID afirma que la Iglesia no sólo reza, sino que «autoritativamente dispensa e applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi». Ante esto el autor viene a decir que ID, aunque aquí no recoge sus ideas, tampoco las rechaza; sólo sería incompatible con ID afirmar que la eficacia de las indulgencias depende de una oración de la Iglesia que no se considere también acto de la "potestas auctoritativa" (cfr. pp. 248-249). El está dispuesto a admitir la formula de ID, pero sin jamás identificar potestas auctoritativa con potestas iurisdictionis.
Sostiene que en el n 2 de ID el concepto de «pena temporal» es el que él propuso (pena intrínseca, consecuencia del pecado, y no sólo pena extrínseca, vindicativa), pues sólo se cancela a través de la «sanctificatio et purificatio» del alma.
Pienso que el planteamiento de fondo del autor es efectivamente compatible con la doctrina de ID: «L'indulgenza non è il surrogato dell'opera esistenziale dell'amore e della penitenza, bensì è un aiuto per quest'opera. Essa raggiunge così il suo intento solo nella misura in cui quest'opera esistenziale si compie «nella grazia e nella libertà» (p. 268).
6. El último artículo de la I parte lleva el siguiente título: «Pietà personale e pietà sacramentale» (34 pp., publicado en 1953). En este en sayo el autor trata de dar respuesta a los siguientes interrogantes: ¿Los actos de piedad personal, por ejemplo la «comunión espiritual» o el examen de conciencia y la contrición, pueden sustituir la recepción efectiva de la Eucaristía y de la Penitencia? ¿Tienen estos actos el mismo significado y eficacia que los mismos sacramentos? (cf. pp. 278 — 279). El autor concluirá con un no; pero es un «no» que puede dejar confuso a un lector poco preparado. Explicaré por qué.
Por una parte Rahner procura resaltar «la unidad entre el deseo del sacramento y el sacramento mismo», tanto por lo que se refiere a la fe del sujeto y su manifestación y crecimiento en el ámbito sacramental y eclesial (y a los otros actos que él necesariamente debe poner cuando recibe — sin mera pasividad — los sacramentos) (cf. pp. 304-305), como a la gracia que estos conceden, que es siempre gratia Christi, gracia que nos llega a través del Cuerpo de Cristo que es la Iglesia, gracia de la Iglesia (cf. p. 284).
Con esto resalta que el deseo del sacramento no lo sustituye; y que no hay dos vías, una extrasacramental y otra sacramental de justificación. «Che l'attività soggettiva e l'atto sacramentale non sono due vie per giungere alla stessa meta, cioè il conseguiemnto e l'aumento della grazia di Dio, ma due fasi di un unico e identico atto, allora non ci si può neppure porre la domanda se si debba seguire l'una o l'altra via»(p. 282).
Por otra parte subraya que los sacramentos son eficaces en el sujeto según la medida de sus disposiciones (cf. p. 278); estas no son la causa de la eficacia, pero dan la medida según la cual el sujeto recibe el efecto del sacramento (cf. Ibid). Con esto llega a concluir: «Ma quanto si è detto non si può senz'altro dedurre il principio che quanto più spesso si ricevono i sacramenti tanto meglio è la vita spirituale» (pp. 307-308). Es decir, siempre hay que tener en cuenta las disposiciones del sujeto.
Conclusión: el autor está dispuesto a defender dos posiciones: la de aquellos que quieren recibir con frecuencia los sacramentos y lo hacen con fe y devoción, y la de aquellos que prefieren esperar, pues les parece que no están preparados para recibirlos. «Gli atti della vita spirituale, veramente sana, compiuti in maniera esplicita e con grande solennità, sono piuttosto rari e straordinari in confronto al corso della vita quotidiana. Ciò vale anche per i sacramenti. Per dirla in termini più esatti: le possibilità spirituali e morali di un uomo sono limitate e condizionate dal suo grado di sviluppo spirituale, dal suo carattere personale, dalla sua posizione sociale, ecc. Ora se esse in pratica non permettono una notevole crescita di intensità nelle disposizioni personali esistenziali atte alla recezione dei sacramenti, una maggiore frequenza ad essi, un accostamento numericamente più frequente non avrebbe senso, anche se in astratto resta sempre vera la sua utilità secondo le norme della morale» (p. 308).
Todo estos argumentos son muy «razonables». Pero en el fondo hay una tesis poco acertada (y no sólo desde el punto de vista pastoral, pues en último término hace referencia a la fe en la eficacia santificadora de los sacramentos — en los milagros de la gracia que a través de ellos pueden darse —, y a la obediencia al mandato evangelizador de Jesucristo). Me refiero a que el autor en vez de exhortar a los fieles a llevar una vida auténticamente cristiana y a prepararse para recibir frecuentemente, siempre con fe y amor (con todas las debidas disposiciones, con intensa devoción) los sacramentos, parece que admite: «es muy difícil que un cristiano normal esté suficientemente preparado para recibir con frecuencia los sacramentos»; por tanto, deben dejarse tranquilas a las personas que no se acercan frecuentemente a recibirlos (¿también a los sacerdotes que no celebran diariamente la Eucaristía, o los fieles que después de un largo período, por ejemplo un año, no reciben el sacramento de la Penitencia?). A esta conclusión podría llegar el lector del ensayo, pues Rahner dice textualmente: «Anche se dal principio sopra accennato non si possono dedurre norme numeriche tassative, esso serve a far riconoscere legittima una certa libertà, sia per il più che per il meno, dei figli di Dio nella frequenza dei sacramenti» (p. 309). No se trata de poner en duda esa libertad. Ni de negar que una práctica sacramental "rutinaria" (con poca fe, sin apenas devoción, con pocos deseos de imitar al Señor y "cambiar de vida" ) es algo que debe corregirse. Pero plantear las cosas como hace el autor no parece correcto; algunos pastores, que acusan de «consumismo sacramental» a los fieles que se acercan con frecuencia a los sacramentos de la penitencia y de la Eucaristía, y no les facilitan el acceso a ellos, podrían encontrar en este artículo ideas para justificar su actuación. Desde luego en estas páginas no encontrarán una exhortación a formar mejor a los fieles, para que de este modo venzan la rutina y reciban los sacramentos cada vez con más fe y devoción, llenos de agradecimiento al Señor, que quiso instituirlos para ayudarnos a vencer el pecado y vivir en El la vida de los hijos de Dios. Además, algunosfieles, temerosos de no ser dignos o de no estar suficientemente preparados, podrían concluir que es más adecuado reservar la recepción de los sacramentos para momentos «extraordinarios» de la vida.
OBSERVACIONES A LA II PARTE
La II parte recoge 7 ensayos históricos: 1— Il peccato quale perdita della grazia nella letteratura della Chiesa primitiva (65 pp., publicado en 1936). 2— La dottrina del «Pastore» di Erma sulla penitenza (90 pp., publicado en 1955). 3— La remissione dei peccati postbattesimali nella «Regula fidei» di S. Ireneo (10 pp., publicado en el año 1948). 4— Teologia e prassi della penitenza nella «Didascalia Apostolorum» (39 pp., publicado en el año 1950). 5— La teologia della penitenza in Tertulliano (49 pp., publicado en 1952). 6— La dottrina sulla penitenza di S. Cipriano di Cartagine (133 pp., publicado en 1952). 7— La dottrina di Origene sulla penitenza (170 pp., publicado en 1950).
Todos resultan interesantes para el estudioso de la historia del dogma. El autor ofrece en estos artículos muchas de las ideas que aparecen en los ensayos especulativos. Estudia los grandes temas de la teología de la penitencia: la noción de pecado en la Iglesia primitiva, y la esencia del pecado grave; la sacramentalidad de la penitencia en los primeros siglos; las diversas praxis y ritos de la penitencia; el sentido y la eficacia de la imposición de manos en la penitencia; la reiterabilidad de la penitencia; la controversia montanista sobre la existencia de pecados irremisibles; el aspecto antieclesial del pecado; la dimensión eclesial de la penitencia; la atendibilidad de la tesis de B. Xiberta sobre la res et sacramentum de la penitencia (sería la reconciliación con la Iglesia), que el autor comparte; la relación entre la pax cum Ecclesia y la reconciliación con Dios; las relaciones entre bautismo, confirmación y penitencia; las diferencias entre la afesis bautismal y la metanoia de la penitencia con relación a la remisión de la pena temporal; el sentido de la «excomunión» en la Iglesia primitiva; la interpretación del poder de «atar-desatar» en los primeros siglos del cristianismo; la eficacia de la oración de la Iglesia en la reconciliación; la existencia de una penitencia sacramental privada en la Iglesia primitiva, junto con la penitencia pública (el autor la descarta); la eficacia de la penitencia personal y su relación con la penitencia sacramental; la cuestión del ministro de la penitencia y el papel de los «pneumáticos» y de los mártires en la Iglesia primitiva.
En esta parte, como en la primera, no se encuentran afirmaciones que vayan directa y claramente contra la fe definida y católica de la Iglesia. De todas formas la lectura del libro debería quedar reservada a especialistas en la materia.
A.G.I. (1991)
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