HEIDEGGER, Martin

In cammino verso il linguaggio

Mursia, Milano 1973

(t. o.: Unterwegs zur Sprache)

Si tratta di un'opera del secondo periodo di Heidegger, che raccoglie brevi saggi editi, conferenze, e un testo inedito. Anche se con qualche ripetizione, il libro si presenta con un carattere abbastanza unitario: non è fra i più densi di Heidegger, dal punto di vista filosofico, ed è spesso studiato dal punto di vista dell'estetica. Tuttavia i riferimenti alla propria visione filosofica sono continui, e guidano tutte le riflessioni, poetiche e non; anzi, per poter comprendere il testo è necessario avere una conoscenza previa dei capisaldi della filosofia di H., altrimenti non vi si riesce a trovare un punto fermo a cui ancorarsi.

In questa recensione, a un'esposizione sommaria del contenuto dell'opera seguirà un'esposizione più dettagliata di ogni breve saggio: vi sono numerosissime citazioni perchè il linguaggio di Heidegger è assolutamente peculiare, e nella sua visione della filosofia la singola parola ha un ruolo insostituibile; non si tratta solo di precisione concettuale, ma anche di evocazione; di ciò che la parola suggerisce e lascia parlare "attraverso se stessa. Spesso H. è intraducibile, perchè crea parole nuove, piegandole all'esigenza del suo pensiero. Egli rifiuta per"principio" (diciamo così, ma c'e dietro un discorso molto lungo) il discorso fondativo; per questo si cercherà invano in quest'opera una giustificazione logico-teoretica delle affermazioni. H. cerca invece di "far vedere" una realtà difficile da contemplare, senza dare dimostrazioni: ovviamente un discorso del genere si presta ad arbitrarietà abbastanza macroscopiche.

Nelle citazioni indichiamo —ove non vi siano specificazioni in contrario— la pagina della traduzione citata. Bisogna tener presente che in tedesco tutti i sostantivi hanno la lettera maiuscola per cui la traduzione di "Essere", "Dire", con le maiuscole è una sce1ta arbitraria del traduttore, che è rifiutata da altri studiosi di H.

Nell'esposizione dell'opera e ne11a scelta delle citazioni, abbiamo privilegiato quei passi che meg1io chiariscono la posizione complessiva di H., e che espongono il suo "metodo" filosofico, esponendo invece per sommi capi le analisi filologiche o ermeneutiche sulle poesie, che pure potrebbero aver avuto un certo interesse.

ESPOSIZIONE D'INSIEME

L'indice dell'opera è il seguente:

I. Il linguaggio . . . . . . . . . .    p.27

II. Il linguaggio della poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl. p.45

III. Da un colloquio nell'ascolto del linguaggio . . p.83

IV. L'essenza del 1inguaggio . . . .    p.127

V. La parola . . . . . . . . . . . .    p.173

VI. I1 cammino verso il linguaggio . .  p.189

Nota al testo . . . . . . . . . . . .   p. 215

Heidegger riprende la sua tesi fondamentale secondo cui tutta la storia della metafisica, dai Greci fino a lui, è una storia dell'oblio dell'essere; la metafisica ha parlato degli enti, e ha ridotto Dio a un ente, ma ha ignorato l'essere (con la E maiuscola o meno, non si sa), riducendo il pensare a un pensare "calcolante", che ha la sua compiuta realizzazione nella tecnica moderna, come espressione ultima della volontà di potenza (o "volontà di volontà") che è anche all'origine della metafisica. Le consuete categorie, e il principio di causalità valgono per gli enti, ma non per l'essere: l'essere quindi può essere colto solo in un pensare "radicale", che non cerca dimostrazioni, "fondazioni", ma cerca nel linguaggio di un'epoca le tracce dell'essere e del suo modo di rapportarsi all'uomo, e —attraverso l'uomo, che è "esser-ci"— al mondo delle cose.

Questo pensiero è quindi un pensiero "rammemorante", che si avvale delle ricerche filologiche ed ermeneutiche, ed è vicino alla poesia, anche se se ne differenzia. L'essere non si rivela mai pienamente; mentre si dà si ritrae e rimane velato. La verità è dis-velamento (a-lètheia), è presenza dell'essere, che mentre si dà (es-gibt: c'è) nell'ente, si ritrae. L'essere si dà nella parola: il linguaggio è un luogo privilegiato di manifestazione dell'essere. E' prima dell'uomo perchè gli è dato, ed è sopra l'uomo. Non è —propriamente— l'uomo che parla, ma è il linguaggio che parla nell'uomo. Per questo bisogna"ascoltare", porsi in un atteggiamento di ricezione e di ascolto, di accettazione del messaggio dell'essere, senza voler dominare, misurare, calcolare. Bisogna ascoltare, specialmente il linguaggio poetico.

Si avvicina una nuova epoca in cui la metafisica sarà superata (a questo allude il cap.II); ma H. non dice se in quest'epoca l'essere si manifesterà, o vi sarà un nuovo modo di "nascondimento" dell'essere, dopo quello dell'epoca della metafisica. Del resto l'uomo non può fare molto per anticipare questa nuova epoca: solo porsi in un atteggiamento di disponibilità e di ascolto. Nelle ultime opere, e nell'ultimo capitolo di questa, H. parla molto dell'Ereignis (l'evento, come appropriazione-espropriazione), che sarebbe più originario e più ricco dell'essere, e a cui bisogna risalire per cogliere l'essenza più profonda del linguaggio. Come si vede, quindi, la riflessione sul linguaggio è riflessione sull'essenza stessa della realtà e dell'uomo.

Un' ultima precisazione: quando H. parla di "sacro", di "dei" o "divini", non si deve intendere una prospettiva religiosa o teologica: si tratta di una "sacralità" di tipo totalmente profano, e totalmente "al di qua" di un avvicinamento a Dio.

ESPOSIZIONE ANALITICA

Il linguaggio

Si tratta di una riflessione sul linguaggio svolta "dall'interno". "E' al linguaggio che va lasciata la parola"(28). La nostra riflessione è un prendere dimora presso il linguaggio.

"Considerare il linguaggio come espressione significa vederlo nella sua esteriorità"(29). "In realtà nessuno dovrebbe dichiarare inesatte le definizioni del linguaggio come espressione fonica di moti interiori dell'animo, come attività umana, come rappresentazione figurativo-concettuale o rifiutarle come inutili". Quello che però sfugge è il carattere"più antico" del linguaggio, peculiare. Per coglierlo bisogna esaminare la "parola pura", la poesia. H. esamina la poesia Una sera d'inverno, di Georg Trakl e svolge le sue considerazioni mentre la illustra. La poesia è a p.31 del testo.

Una sera d'inverno

        Quando la neve cade alla finestra,

        A lungo risuona la campana della sera,

        Per molti la tavola è pronta

        E la casa è tutta in ordine.

        Alcuni nel loro errare

        Giungono alla porta per oscuri sentieri.

        Aureo fiorisce l'albero delle grazie

        Dalla fresca linfa della terra.

        Silenzioso entra il viandante;

        Il dolore ha pietrificato la soglia.

        Là risplende in pura luce

        Sopra la tavola pane e vino.

"Il linguaggio nella sua essenza non è né espressione né attività dell'uomo. Il linguaggio parla. Noi ricerchiamo ora il parlare del linguaggio nella poesia. Ciò che si cerca è, pertanto, racchiuso nella poeticità della parola"(33). Il parlare nomina. "Il nominare (...) non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama (..). Il luogo dell'arrivo che è con-chiamato nella chiamata è una presenza serbata intatta nella sua natura di assenza (...). Il chiamare è un invitare. E' un invito alle cose a essere veramente tali per gli uomini" (34-35).

Le cose che la poesia nomina adunano"il quadrato" (Geviert). Esse sono chiamate nella loro essenza. "Il terzo e il quarto verso della seconda strofa (...) dicono al mondo di venire" (36), e facendo ciò, additano al mondo le cose. "Il mondo concede alle cose la loro essenza. Le cose fanno essere il mondo. Il mondo consente le cose"(37). Mondo e cose sono realtà che si compenetrano, e passano attraverso una linea mediana che è la loro intimità e li rende uniti. "L'intimità di mondo e cosa è nello stacco (Schied) del frammezzo, e nella dif-ferenza (Unter-Schied). (...) La dif-ferenza di cui qui si parla esiste solo come quest'una. E' unica. (...) La dif-ferenza in quanto linea mediana, media il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioè stabilisce il loro essere l'uno per l'altro, di questo fondando e compiendo l'unità"(37). La differenza non è nè distinzione, nè relazione: "è semmai la dimensione del mondo e delle cose" (38). Nella poesia la differenza a individuata nella"soglia" (v.10), e "il dolore è ciò che congiunge nello spezzettamento che divide e aduna" (39).

H. stesso, alla fine della conferenza, ne riassume il percorso: "Il linguaggio parla. Il suo parlare chiama la dif-ferenza, la quale porta mondo e cose nella semplicità della loro intimità, consentendo loro d'essere se stesse.

(...) L'uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio. Il corrispondere è ascoltare. L'ascoltare è possibile solo in quanto legato alla Chiamata della quiete da un vincolo di appartenenza. (...) Quel che solo conta è imparare a dimorare nel parlare del linguaggio" (43).

Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl

Una lunga ricognizione su testi poetici di Trakl, per scoprire il "luogo" (Ort: quel che riunisce a sé, penetrando di sé tutto il resto; in origine "la punta della lancia") del poema di Trakl. Poichè ogni vero poeta scrive a partire da un poema, che non viene mai completamente esplicitato. Si tratta di una Erörterung (lett. "trattazione", "commento", ma qui nel senso anche di "situarsi nel luogo di") che aiuta all'ascolto di un problema.

Un verso di T. molto commentato è:

E' l'anima straniera sulla terra

Straniera non nel senso platonico. In realtà cerca la terra, non la sfugge. Compare spesso l'"azzurro": "L'azzurro stesso è —grazie alla sua profondità che raccoglie (il disperso), e che splende solo nell'occultamento— il Sacro"(51). "Fiera azzurra" è l'uomo, animale che non ha ancora fissato il suo vero essere e sul quale "il Sacro riflette la sua luce". Un'altra figura ricorrente è lo straniero. La stirpe umana (das Geschlecht) è stata colpita da maledizione: la "dilacerante discordia dei sessi" (55). Essa porta alla dualità e alla individualizzazione egoistica. La dualità deve trapassare "nella mitezza di una duplicità che è insieme semplicità o unità"; questo avviene per la stirpe che segue lo straniero che conduce "nell'azzurro della sua notte". "Lo straniero è l'altro rispetto agli altri, cioè alla stirpe in disfacimento"(55). Lo straniero peregrinante si chiama der Abgeschiedene (il dipartito). Poichè è il motivo centrale di Trakl, "noi chiameremo il luogo della sua poesia la dipartenza (die Abgeschiedenheit) (lett. anche: solitudine, isolamento, segregazione) (56).

Il dipartito è in cammino verso un altro luogo. Ha una follia "mite". "Questo straniero dispiega il vero essere dell'uomo portandosi agli inizi di ciò che ancora non è giunto a gestazione (...)" (59): questo momento è il "non-nato".

Il "mattino", l'inizio della stirpe non nata custodisce l'essenza del tempo. "Tale essenza continuerà a rimanere preclusa al pensiero oggi dominante, finchè vigerà la concezione del tempo che da Aristotele in poi è ancora dappertutto determinante. Secondo questa il tempo (...) è la dimensione del calcolo quantitativo o qualitativo della durata che si svolge nella successione. Ma il tempo vero è l'avvento di ciò che è stato. Questo non è il passato, ma il raccogliersi di ciò che è, il quale precede ogni avvento nell'atto che, in quanto appunto raccogliersi, si ritira e cela entro la sua perenne priorità" (60).

"La dipartenza è geistlich, trae origine e accento dal Geist, dallo spirito, ma non è geistig in senso metafisico. (...) Lo spirito è fiamma e, solo forse come tale, soffio. (...) Il male è spirituale (geistlich) in quanto è l'erompere, a modo di fiamma che trascina e acceca, di una forza che sconvolge, che porta nella dilacerazione del funesto e minaccia di bruciare il com-posto fiorire della mitezza. (...) In quanto l'essenza dello spirito consiste nel fiammeggiare lo spirito apre la via, la rischiara, mette in cammino" (63). L'illuminazione si compie nello sguardo contemplante. Il "fiammeggiante contemplare" è il dolore, che penetra tutto ciò che vive. "Il dolore non è né l'avverso, né l'utile. Il dolore è il dono del vero essere per tutto ciò che è" (66).

"La dipartenza è l'adunamento grazie al quale l'essere umano viene riaffidato alla quiete della sua fanciullezza e questa agli albori di un altro inizio. In quanto adunamento, la dipartenza ha la natura del luogo (Ort)" (68-69).

Poetare è "dire ascoltando", ma prima di tutto ascoltare. "La dipartenza assume dapprima l'ascoltare entro la propria eufonia, affinchè questa penetri di sé il dire che la ridice. La frescura lunare dell'azzurro sacro della notte spirituale penetra del suo suono e della sua luce ogni visione e ogni dire. La parola di questo dire diventa così un ridire: diventa poesia. In e per quel che giunge a espressione il poema resta custodito come il per essenza inespresso" (71).

Dio si nasconde a tentativi di conquista (concettuale).

Il linguaggio della poesia di Trakl "parla in quanto 'cor-risponde' a quell'essere in cammino in cui è e procede lo straniero. Il sentiero sul quale questi si è avviato porta lontano dalla vecchia stirpe degenerata: conduce nel tramonto che è passaggio in quel mattino della stirpe non nata, che permane, serbato nell'avvento" (73).

Nel linguaggio di Trakl parla "l'essere in cammino della dipartenza". Il linguaggio della poesia è polisenso in sé, e nel contesto del poema. "La polifonia del poema trakliano proviene da un punto unificante, da una monodia che, in e per sé, resta sempre indicibile" (74-75). E' una molteplicità di significati che "non è l'imprecisione di chi lascia correre, bensì il rigore di chi lascia essere" (75), conseguenza di un "retto contemplare". In altri poeti la pluralità di significati è l'indeterminatezza di chi va a tentoni. Invece il linguaggio polisenso di Trakl è, in senso più alto, così univoco da risultare infinitamente superiore anche ad ogni esattezza tecnica che possa essere raggiunta da un concetto la cui univocità sia quella propria della scienza" (75).

Trakl parla di "terra d'occidente", cioè "terra della sera", e di una stirpe: indica non l'unità biologica, ma "quella forza unificante che unisce muovendo dall'azzurro della notte spirituale (77).

La poesia di Trakl è astorica? E' storica (geschichtlich) nel senso più alto. "La sua poesia canta il destino destinante (Geschick) del segno che, segnando di sé la stirpe umana, la porta alla verità, sempre ancora in serbo, del suo essere, e così la salva" (78).

"L'anima è in cammino verso la terra della sera. Regna su questa lo spirito della dipartenza e la fa 'spirituale' (...). Una Erörterung del poema di Trakl ci presenta questo poeta come il poeta della terra della sera ancora indisvelata" (79).

Da un colloquio nell'ascolto del linguaggio

Dialogo fra due personaggi, un giapponese (G) e un "Interrogante" (I), che sarebbe H. stesso, in tono esoterico e sacrale. Nelle citazioni testuali, indicheremo se parla G o I solo quando è utile distinguere.

Il colloquio inizia con un chiarimento da parte di H. delle sue posizioni e di cose scritte anni prima. In seguito, I principalmente interroga G su come l'essenza del linguaggio viene "detta" in giapponese. E' un dialogo cortese, non un dibattito; entrambi sono alla ricerca di un qualcosa che viene "svelato" dal linguaggio stesso che "parla" nel colloquio. Per questo, i due si lasciano portare a frequenti divagazioni: nell'indeterminato il linguaggio viene meglio a parola.

La lingua giapponese è povera di concetti; c'è il pericolo "che noi ci lasciamo traviare dalla ricchezza dell'elemento concettuale" europeo, "e svalutiamo come qualcosa di indefinito e vago ciò che rivendica cotto la sua signoria il nostro modo di esistere"

I due vedono una grossa difficoltà: parlare del linguaggio e della cultura giapponese in tedesco corre il rischio di alterare tutto il senso. La terranno molto presente e modereranno le loro pretese.

I tratteggia il suo percorso speculativo: Brentano e l'essere in Aristotele, Duns Scoto, la fenomenologia di Husserl, specialmente le Ricerche logiche, e l'interesse per il linguaggio, nato con gli studi di teologia e di ermeneutica (Schleiermacher, ma anche Dilthey).

I vuole cercare "se alla fine (...) possa giungere all'esperienza pensante un'essenza del linguaggio, la quale offra la certezza che il dire europeo-occidentale e il dire asiatico-orientale vengano a colloquio in un modo nel quale risuoni l'eco della stessa sorgente" (88).

I ripercorre le sue tappe perchè "la provenienza è futuro", e "come cominciasti, così rimarrai" (Hölderlin).

Bisogna eliminare il voler sapere, che impedisce l'interrogare pensante e l'ascolto; si appella in fondo alla razionalità di una ragione autofondata.

G parla a proposito dell'estetica, della distinzione simile a quella sensibile/soprasensibile, di Iro (colore) e Ku (il Vuoto, l'Aperto, il Cielo): "Noi diciamo: senza Iro non c'è Ku" (93). Tuttavia Iro indicando il colore "intende qualcosa di essenzialmente diverso e superiore rispetto al sensibilmente percepibile di qualsiasi specie" (93). Così Ku intende altro dal semplice soprasensibile.

Una dimensione profonda del mondo giapponese, che è occidentalizzato solo in superficie, è nel teatro del No. Il film, invece, e anche il più orientale come Rashomon è una forma europea; è oggettivazione.

Il Nulla di cui parlava I in una delle sue conferenze non va inteso nichilisticamente; corrisponde al Vuoto, che è per i giapponesi il nome più alto per indicare quello che I chiama Essere. I usava questa parola non nel senso usuale dei metafisici, ma per cercare di "evidenziare l'essenza della metafisica segnandone così anche i limiti.(...) Non una distruzione della metafisica o anche solo un suo rinnegamento" (97). "(Il) mio pensiero (...) chiaramente distingue tra "essere" come "essere dell'essente" ed Essere in senso proprio, come verità (radura luminosa)"(98). Non ha usato un nome nuovo perchè ancora è in ricerca: aspetta che "la parola si rivolga" a lui.

"Il linguaggio è la dimora dell' Essere": un'espressione da non concettualizzare perchè "tocca l'essenza del linguaggio senza violarla" (99).

La parola, più che segno, è cenno e gesto. "I cenni sono enigmatici. (..) E il loro cenno invita a un distacco mentre addita quello donde d'improvviso muovono a noi" (102). Quando I parla di "essere" non ha in mente"l'essere dell'essente metafisicamente rappresentato, bensì l'essenza dell'essere, più precisamente la differenza (Zwiefalt) di Essere ed essente" (102-103).

Prima I usava la parola "ermeneutico" ("fenomenologia ermeneutica") per nominare il suo pensiero: ora non la usa più: "per lasciare il cammino del mio pensiero nel dominio di ciò che sfugge a una denominazione precisa" (104).

La parola greca da cui deriva "ermeneutico" viene fatta risalire —"in un gioco del pensiero che è più vincolante del rigore della scienza" (105)— al nome del dio Ermes. "Ermeneoein" è l'esporre che reca un annuncio, e quindi non primariamente l'interpretare, ma anzitutto "il portare messaggio e annuncio".

"I: (...) Quello di cui si trattava e si tra-tta era ed è di evidenziare l'essere dell'essente: certamente non più alla maniera della metafisica, ma in modo che l'Essere stesso si manifesti. L'Essero stesso —ciò significa: la Presenza di ciò che può farsi presente, vale a dire la differenza dei due momenti sulla base dell'unità. E' questa Differenza che esige l'uomo per la sua propria essenza.

G: l'uomo è pertanto uomo in quanto corrisponde alla parola della Differenza e l'annuncia nel messaggio che ad essa la Differenza ha affidato.

I: Ciò che predomina e regge nel rapporto dell'essenza dell'uomo con la Differenza è perciò il Linguaggio. È questo che determina il rapporto ermeneutico" (105).

Siamo in colloquio con i pensatori del passato, cercandone l'interpretazione. "Rapporto" non significa relazione in senso logico: vuol dire (quando si parla del rapporto dell'uomo con la Differenza) che l'uomo è "nel servizio affrancante che chiama l'uomo a custodire la Differenza" (107). Essa non si lascia chiarire poichè è lei stessa che "sviluppa la chiarità, la radura luminosa entro cui la cosa presente come tale e la Presenza si fanno indistinguibili per l'uomo" (107). La Differenza non è oggetto del nostro conoscere rappresentativo.

I rivolge la sua meditazione verso ciò che è "familiare", cioè "quello che è prima affidato alla nostra essenza e solo poi diventa esperibile" (108).

I intende fenomeno non in senso kantiano: ma in un modo simile (anche se è stato erroneamente identificato) a quello dei Greci. "Gaivesa" significa per loro: portarsi alla luce e in questa apparire. (..) Il compito che si pone al nostro pensiero odierno è quello di pensare il pensiero greco ancor più grecamente. (..) Se lo stesso esser presente è pensato come apparire, allora domina nell'esser presente un emergere all'aperto nel senso del non essere nascosto. Tale non esser nascosto si realizza in un disoccultare inteso come rischiarare. Sennonchè proprio questo rischiarare resta, come evento, sotto ogni riguardo non pensato. Impegnarsi a pensare tale non pensato: questo significa perseguire il pensiero greco in modo più originale, scoprirlo nell'origine del suo autentico essere" (111-113).

L'uomo porge ascolto al messaggio della Differenza. E' nella servitù liberante di tale ascolto, cioè è in un rapporto "ermeneutico" (che reca annuncio di quel messaggio ed esige che l'uomo gli corrisponda).

"L'uomo è il portatore del messaggio che il disvelamento della Differenza gli aggiudica". Siamo arrivati a una "trasmutazione del pensare", che si realizza come trasmigrazione: un luogo (la metafisica) viene lasciato per un altro. "Cosa per cui risulta necessaria l'Erörterung come appunto evocazione e conquista del luogo (Ort)" (115).

G prima parla dello Iki come grazia, inteso nel senso di " soffio della quiete che luminosamente rapisce, e poi dice la parola —che aveva a lungo dubitato se dire o no— che esprimerebbe l'essenza del linguaggio, in giapponese: è Koto ba. "Il respiro della quiete, dalla quale nasce questo rapimento appellante (dello Iki) è la forza che fa che quel rapimento avvenga. Ma Koto indica sempre al tempo stesso quel che di volta in volta rapisce, ciò che si manifesta con la pienezza del suo incanto, di volta in volta unico, nell'attimo irripetibile. Koto sarebbe allora l'evento del messaggio rischiarante della grazia (..)" (117). "Jaris" è avvicinato da Sofocle a: la generante. "La nostra parola tedesca dichten, tihton dice la stessa cosa. (..) La grazia stessa è poetica, è l'autentica poeticità, lo scaturire del mesaggio del disvelarsi della Differenza" (l18). Per nominare il linguaggio, I pensa che la parola tedesca migliore sia die Sage. "Essa indica il Dire originario, quel che è detto da questo dire, quel che ha da esser detto" (118).

"Ciò che mi induce al riserbo è la sempre più chiara consapevolezza della sacertà intrinseca al mistero del Dire originario" (120).

Il problema è se e veramente possibile parlare su:L Linguaggio. Entra in gioco il cosiddetto "circolo ermeneutico": "Un colloquio che derivi dal Linguaggio è necessariamente connesso a un appello dell'essenza del Linguaggio. Ma come può per quel colloquio realizzarsi l'appello se esso stesso, quel colloquio, non si è prima disposto e impegnato a un ascolto che immediatamente attinga l'essenza?" (122).

La risposta è il parlare "nell'ascolto del Linguaggio", assunti dal dominio dell'essenza di questo.

L'essenza del linguaggio

Tre conferenze su un tema, che "vorrebbero portarci alla possibilità di fare esperienza del linguaggio" (127), che "è altra cosa dal procurarsi nozioni sul linguaggio. (...) La ricerca linguistica scientifica e filosofica mira (...) a costruire ciò che viene chiamato "metalinguaggio" (128). E' una cosa legittima e utile, ma diversa dal nostro "fare esperienza". "La metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario d'informazione. Metalinguaggio e Sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa" (128). Il linguaggio ci tocca nella sua essenza specialmente là dove non troviamo la parola giusta. E' il tema della poesia Das Wort (la parola) di Stefan George. L'ultimo verso: (per la poesia intera cfr il cap. La parola)

Kein ding sei wo das wort gebricht

(Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca)

è un qualcosa che egli ha appreso. "In una poesia di tale altezza si pensa, ma senza scienza, senza filosofia" (130). Non si può trattare una poesia come un testo filosofico, cercando una conferma alle proprie tesi: sarebbe svalutarla.

George è giunto nel rapporto della parola con la cosa. "La parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa in modo che essa "è" una cosa". Il poetare, che era stato facile, a un certo punto vien meno a George: non c'è il nome per il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano.

"(..) poichè si è prigionieri del pregiudizio secolare che il pensare sia compito della ratio, cioè del calcolare inteso nel senso piu lato, si è subito diffidenti quando si sente parlare di una vicinanza tra pensiero e poesia. Il pensare non è un mezzo per il conosoere. Il pensare traccia solchi nel campo dell'essere" (138).

H. torna sul titolo della conferenza, che sembra un po' pretestuoso: in realtà è problematico, è una domanda: "Quando poniamo una domanda al linguaggio, una domanda alla sua essenza, già del linguaggio deve esserci fatto dono (..). Ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso" (139).

Il tratto fondamentale del pensiero è l'interrogare, e, prima ancora, l'ascolto. "In qualunque modo ci rivolgiamo al linguaggio per interrogarlo sulla sua essenza, è prima di tutto necessario che il linguaggio stesso si sia rivolto a noi. Se così stanno le cose, l'essenza del linguaggio si fa parola dell'essenza" (139-140).

All'inizio della II confererlza, II. fa una parentesi sulla scienza: "Il metodo non è (..) un puro strumento al servizio della scienza; è anzi al contrario il metodo che ha assunto a proprio servizio le scienze. (..) Nel metodo è tutta la potenza del sapere. Il tema rientra nel metodo" (141).

Noi parliamo del linguaggio e ripetiamo ciò che il linguaggio dice: è un parlare inadeguato che porta a un irretimento; esso si dissolve se osserviamo la regione del pensiero: essa "confina con il poetare" (142).

Il linguaggio è in quanto si partecipa; deve parteciparsi. La poesia è canto. Il canto è linguaggio, e quindi ha affinità con il dialogo. "Il canto è la celebrazione dell'avvento degli Dei, al cui giungere tutto si acquieta" (144).

L'essenza del linguaggio "ricusa di farsi parola, di dirsi cioè in quella lingua nella quale noi facciamo asserzioni sul linguaggio" (147). Allora nella frase "l'essenza del linguaggio è il linguaggio dell'essenza", la seconda parola "linguaggio" esprime un modo diverso di parlare. Poetare e pensare sono vicini, si muovono nell'elemento del dire, "stanno di fronte", ma non si intersecano, sono "paralleli". "Tornare indietro dove già (propriamente) siamo: è questo il modo di procedere sulla via del pensiero, che ora dobbiamo percorrere" (150). E' un re-gresso d'altra natura rispetto al pro-gresso del regno delle macchine.

Se si prende a pensare in modo "calcolante" si trovano aporie: come può la parola far essere una cosa? Deve essere prima della cosa. Ma anche la parola è una cosa, altrimenti è un nulla...

Invece parola e cosa sono realtà diverse. Noi abbiamo cognizione delle cose, e la parola non è cosa. La cosa 'è'. Ma "né l' 'è' né la 'parola' hanno l'essenza della cosa, l'essere (...). Cionondimeno ne l 'è' né la parola e il dire di questa possono venir cacciati nel vuoto del niente" (152). L'esperienza poetica della parola rimanda al "degno di essere pensato". "Essa rimanda a quello di cui può dirsi 'es gibt', senza che possa dirsi 'ist'" (153). Nella parola si cela quello che gibt (dà). La parola stessa dà: dà l'essere. (es gibt: c'è, si trova, cioè 'si dà', locuzione simile al francese il y a).

La vicinanza fra poetare e pensare non è risultato di un processo: è essa stessa l'evento che li costituisce nella loro essenza. La II conferenza è tutta una riflessione sulla "via" da percorrere. "Per il pensiero meditativo la via fa parte di ciò che chiamiamo contrada. Detto per cenni allusivi, la contrada è, in quanto tale, la radura luminosa nella quale si dischiude a un tempo ciò che rischiara e ciò che occulta (...). Solo la contrada, in quanto contrada, fa essere le strade" (155-156). Anche nel pensare poetante di Laotse la parola guida è la via (Tao), che però è stata tradotta volta per volta come ragione, spirito, Senso, logos. Siamo già nel dominio di ciò che ci reclama, ma la via ci conduce là dove già siamo, in un modo essenziale.

"La prossimità, che avvicina l'uno all'altro il poetare e pensare, noi lo chiamiamo il Dire originario (Sage). In questo ci pare stia l'essenza del linguaggio. Dire, sagan, significa mostrare: far apparire, dischiudere illuminando-celando, nel senso di: porgere ciò che chiamiamo mondo. Questo porgere il mondo, che è insieme un illuminare e celare o velare, è la vivente essenza del dire" (157).

Quando si parla di "linguaggio dell'essenza" (Wesen), la parola Wesen non significa "ciò che qualcosa è", ma va intesa come verbo, participio presente (Wesend) di perdurare, permanere.

In una poesia di Hölderlin, il linguaggio è il fiore della bocca. Si avverte la sostanza di "terra" che il suono materiale del linguaggio reca in sé nel suo sorgere "dal Dire originario nel quale si compie il rivelarsi del mondo. Il dire del linguaggio proviene dalla parola che chiama e aduna, che, aperta all'Aperto, fa sì che nelle cose si manifeati il mondo" (163).

La prossimità fa essere la vicinanza, e non si fonda su un rapporto spazio-temporale. La scienza moderna ha dato un carattere parametrico (cioè di misura) allo spazio e al tempo. Ma prossimità e vicinanza non sono rappresentabili parametricamente. "Ciò che costituisce l'essenza della prossimità non è la distanza, bensì il movimento che congiunge le regioni del quadrato del mondo nell'essere l'una di fronte all'altra. Tale movimento è la prossimità come prossimità vicinante" (166) Lo spazio e il tempo, nel loro vero essere, non conoscono movimento: sono nella quiete. Il tempo temporalizza: "porta a dischiudersi" (168). "Lo spazio del gioco temporale (l'idem et unum che tiene uniti spazio e tempo) è quello che instaura il moto nell'esser l'una di fronte all'altra delle quattro regioni del mondo: terra e cielo, Dio e uomo. E' questo il gioco del mondo" (168).

La prossimità e il Dire originario, in quanto essenza del linguaggio, sono la stessa cosa. "Il linguaggio, in quanto Dire originario del quadrato del mondo, cessa d'essere soltanto qualcosa con cui noi, uomini parlanti, abbiamo un rapporto (..). Il linguaggio, in quanto Dire originario che imprime l'interno moto al mondo, è il rapporto di tutti i rapporti. Esso con-tiene, sostiene, porge oome in dono e fa ricche le quattro regioni del mondo nel loro essere l'una di fronte all'altra, le regge e le custodisce, mentre esso —il Dire originario— resta in se stesso" (169). E restando in se stesso, il Linguaggio include noi che, in quanto mortali, siamo parte del quadrato.

"Il Dire originario dona l' "è", facendolo presente nell'apertura luminosa e nell'oscurità indistinguibilmente intrinseche alla possibilità del suo esser pensato.

(..) Quell'adunare con appello silenzioso, con cui s'identifica il movimento infuso nel mondo dal Dire originario, noi lo chiamiamo il suono della quiete. Esso è il linguaggio dell'essenza.

Sostando presso la poesia di Stefan George abbiamo sentito

dire: Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca.

Abbiamo osservato come nella poesia rimanga non tematizzato qualcosa degno ai meditazione: che cosa significhi: una cosa è. Degno di esser pensato ci è apparso, a quel punto stesso, il rapporto della parola, che —appunto perchè non mancante— può essere pronunciata, con l' "è".

A questo punto, pensando alla vicinanza della parola poetica, ci è probabilmente possibile dire:

Un 'è' appare là dove la parola vien meno.

Venir meno qui significa: la parola possibile a pronunciarsi ritorna nel silenzio, là donde essa trae origine e possibilità, ritorna nel suono della quiete che, in quanto Dire originario infonde movimento alle regioni del quadrato del mondo. instaurando tra loro la prossimità.

Questo venir meno della parola è l'autentico passo a ritroso sul cammino del pensiero" (170).

La parola

È una conferenza che commenta la poesia Das Wort di Stefan George, scritta nel 1919. Ripete in massima parte le idee del saggio precedente, con qualche leggera variazione.

La parola

Meraviglia di lontano o sogno

Io portai al lembo estremo della mia terra

E attesi fino a che la grigia norma

Il nome trovò nella sua fonte

Meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte

ed ora fiorisce e splende per tutta la marca...

Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice

Con un gioiello ricco e fine

Ella cercò a lungo e (alfine) mi annunciò:

"Qui nulla d'eguale dorme sul fondo"

Al che esso sfuggì alla mia mano

E mai più la mia terra ebbe il tesoro...

Così io appresi triste la rinuncia:

nessuna cosa è (sia) dove la parola manca.

La poesia nelle sue 7 strofe esprime le esperienze del poeta che, dopo esser giunto più volte nelle terra della dea (norma) per trovare i nomi per il suo poetare, avendoli sempre trovati si credeva signore del suo dire. Ma per "il gioiello ricco e fine" non ci sono nomi: i due ultimi versi sono la chiave della poesia. "Non è più solo la presa sulla realtà come esperienza già colta dall'immaginazione, quella presa che consiste nel dare un nome: non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi. Al contrario. E' la parola che conferisce la presenza, cioè l'essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente" (179). La rinuncia dell'ultimo verso resta un dire: conserva un rapporto con la parola, ma trasformato. "Il dire giunge ad un altro ritmo, ad un altro "mezos", ad un altro tono" (180). Per il poeta è stata una scoperta folgorante: "Qualcosa d'insospettato, di tremendo gli stava dinanzi, avvincendo a sé la sua attenzione: questo, che solo la parola fa essere una cosa come cosa" (180). Il dire si trasforma "nell'eco di un Dire originario" (182).

"Il tesoro che la terra del poeta mai giunge a possedere è la parola per l'essenza del linguaggio. La potenza e la vita della parola, scorta d'improvviso, il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla sua propria parola. Ma la parola pcr l'essenza della parola non viene concessa. (...) Il gioiello ricco e fine è l'essere della parola che, dicendo, invisibilmente e tacitamente ci offre la cosa come cosa" (185-186). Il gioiello è il Degno d'esser pensato, e di fronte ad esso il poeta non oppose rifiuto. La parola splende come quella che chiama a raccolta, portando quanto è presente al suo esser presente. "Logos" è il termine più antico che indica il Dire originario (die Sage), "il quale, indicando, fa apparire l'essente nel suo è" (186).

"Lo stesso termine "Logos", in quanto termine per indicare il dire, è però al tempo stesso il termine per indicare l'essere, cioè l'esser presente di quanto è presente. Dire originario ed essere, parola e cosa , s'appartengono vicendevolmente in virtù d'un legame occulto, il cui pensamento è appena all'inizio, e destinato a non esaurirsi mai (..). Poetare e pensare sono entrambi un dire privilegiato, in quanto ambedue affidati al mistero della Parola come al massimamente Degno d'esser pensato e perciò da sempre l'un l'altro intrinseci" (186-187).

Il cammino verso il linguaggio

"L'uomo non sarebbe uomo se non gli fosse concesso di parlare —di dire ' è '— ininterrottamente, per ogni motivo, in riferimento a ogni cosa (...). In quanto il linguaggio concede questo, l'essere dell'uomo poggia sul linguaggio". E, poco prima: "E' la facoltà di parlare che fa l'uomo, uomo" (189).

Il nostro filo conduttore: "Portare il linguaggio, in quanto linguaggio, al linguaggio" (190), cioè esperire (nel senso di eundo assequi) nell'intreccio del linguaggio il vincolo liberante.

Dal primitivo "mostrare", a partire dalla Stoa, il linguaggio diventa "designare": il segno nasce per convenzione. In collegamento col mutare dell'essenza della verità, "la rappresentazione di un oggetto viene impiegata e indirizzata all'erogazione di un altro oggetto" (192).

All'origine degli studi moderni sul linguaggio, è un saggio di Wilhelm von Humboldt (1836). Per lui il linguaggio è un'attività, una realtà in continuo divenire, che ha il momento essenziale nel parlare. Esso rimanda all'attività interna dello spirito, con la quale vi è un reciproco influsso. Ma gli studi di Humboldt passano dal linguaggio per arrivare come scopo all'uomo. Invece H. vuole esperire il linguaggio come linguaggio.

Il pensiero non è stato capace di esprimere l'unità unificante del linguaggio.

"Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla, e però, col suo non parlare, dice molto" (198). Dire (Sagen) significa "mostrare, far che qualcosa appaia, si veda, si senta" (198).

"Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario (die Sage) in quanto mostrare (die Zeige)" (199). Da esso traggono origine tutti i segni e la possibilità di essere segni. E il parlare è un porgere ascolto al linguaggio.

Il "mostrare" del Dire originario proviene da una realtà che è l'Ort (luogo), che non tollera Er-örterung: il luogo che non tollera d'essere raggiunto, perchè luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo. "Noi lo chiameremo con una parola antica e diremo:

Ciò che muove nel mostrare del Dire originario è lo 'Eignen'.

Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è proprio così che, emergendone, la cosa presente e assente si rivela nella sua vera identità e resta se stesso. Questo Eignen, in virtù del quale le cose emergono nella loro verità, questo Eignen, che muove il Dire originario in questo suo mostrare, lo chiameremo Ereignen. Esso fa essere il libero spazio della radura luminosa, alla quale accedendo ciò che è presente può permanere come tale e dalla quale sfuggendo ciò che è assente può essere tale, senza cessare di essere. Quel che l'Ereignen grazie al Dire originario fa che sia non è mai l'effetto di una causa, la conseguenza di un fondamento. Ciò che l'Eignen in virtù del quale le cose emergono nella loro verità, ciò che lEreignen genera e accorda è ben superiore a quanto può provenire da ogni possibile agire, fare e fondare.

L'Ereignendes (ciò che fa pervenire nel proprio, ciò che serba e rivela le cose nella loro identità vera) è l'Ereignis [evento, come appunto Ereignen: rivelazione rivelante, cioè costituente e disvelante le cose nella loro verità) stesso, e nulla al di fuori di questo. L'Ereignis, visto nel mostrare costitutivo del Dire originario, non può essere oggettivato né come un fatto né come un avvenimento: può solo essere esperito all'interno del Dire originario come il Donante. Non c'è nulla, al di fuori dell'Ereignis, cui l'Ereignis possa essere ricondotto, in base a cui esso possa essere spiegato. L'Ereignen non è il risultato (Ergebnis) di qualcosa d'altro: esso è, al contrario, la donazione (die Er-gebnis). Solo il generoso dare di questa può concedere qualcosa come quell' 'es gibt', del quale 'l'essere' ancora ha bisogno, per pervenire, come esser presente, a ciò che gli è proprio" (203).

"L'Ereignis è la più mite delle leggi" (204). "L'Ereignis, appropriando a sé l'uomo, assumendolo in una servitù affrancante, fa che il Dire originario giunga alla parola" (205). In nota H. afferma: "(...) il pensiero deve (...) perdere l'abitudine a credere che ciò che viene qui pensato come Ereignis sia 'l'Essere'. L'Ereignis è per essenza altro, perchè più ricco di ogni possibile determinazione metafisica dell'Essere. Vero è invece che l'Essere, per ciò che riguarda l'origine del suo essere, si lascia pensare in base all'Ereignis" (205).

H. parla di Be-wëgung: far sorgere, e mantenere in vita la via. L'autentica riflessione liberante sul linguaggio è una Be-wëgung: essa porta il linguaggio come Linguaggio (Dire originario) al linguaggio (alla parola che si realizza nel suono)" (206).

"Un pensiero che rifletta sull'Ereignis può già sospettarne, anzi già esperirne la presenza nella essenza della tecnica moderna, essenza che si continua qui a designare col termine che suona ancora strano e sconcertante, di Ge-stell (1). In quanto pone un'intimazione all'uomo, in quanto lo provoca (den Menschen stellt, d.h. ihn herausfordert) ad adibire (bestellen) ogni cosa che possa farglisi presente a dispositivo tecnico (als technischen Bestand), il Gestell è come Ereignis, ma è tale in modo che dell' Ereignis è al tempo stesso il mascheramento, perchè ogni 'adibire' si vede inserito nel pensiero calcolante e parla così il linguaggio del Ge-stell. Il parlare è provocato a corrispondere in tutto e per tutto a quella posizione di fronte al reale per cui la presenza di una cosa si identifica con la sua disponibilità tecnica.

Il parlare così ridotto diventa informazione. L'informazione s'informa su se stessa per garantire —grazie alle teorie dell'informazione— il suo proprio procedere. Il Ge-Stell, quell'essenza della tecnica moderna che afferma dappertutto il suo dominio, 'commissiona' per sè (bestellt sich) il linguaggio formalizzato, quel tipo di informazione, in forza del quale l'uomo viene inserito nel e conformato al mondo della tecnica e del calcolo, in esso 'installato', e viene passo passo abbandonando il 'linguaggio naturale' "(207-208). La naturalità del linguaggio intesa dalla teoria dell'informazione come semplice mancanza di formalizzazione, è connessa alla "gusis", che poggia sull'Ereignis. Ma non c'è linguaggio naturale nel senso di un linguaggio proprio della natura umana: il linguaggio è sempre storico.

"Ogni parlare dell'uomo si realizza nel suo essere appropriato al Dire originario (..). Ogni autentico linguaggio, in quanto è (..) assegnato all'uomo, è 'destinato' (geschickt) (inviato) e, perciò, destinatamente storico (geschicklich)" (209).

"Il Dire originario non si lascia rinserrare in alcuna definizione. Esso esige da noi che evochiamo silenziosamente la Be-wëgung in cui si realizza l'Ereignen dell'Ereignis, guardandoci dal discorrere del silenzio. (..) Il Dire originario è il modo in cui l'Ereignis parla: modo non tanto come maniera, quanto piuttosto come "mezos", come il canto che dice cantando" (210).

È necessario, per riflettere sul linguaggio, un mutamento del linguaggio, che non è in nostro potere conseguire. Forse però è possibile in qualche misura prepararlo. Anche von Humboldt sottolineava il ruolo di filosofia e poesia per i mutamenti del linguaggio.

"Pensiero e poesia si coappartengono grazie a quel dire, che ha già votato se stesso al Non-detto, perchè è il pensiero come atto di ringraziamento" (211)[1].

OSSERVAZIONI CRITICHE

Le idee filosofiche di H. sono penetrate abbastanza in molti settori della cultura europea, e hanno influenzato anche alcuni teologi, tanto che ormai alcuni termini molto frequenti in H. (ascolto, dialogo, un certo modo di intendere "la parola", progetto, disponibilità, ecc.) sono entrati nel linguaggio teologico comune. Forse questo è in buona parte dovuto alla mediazione di Karl Rahner, la cui opera più conosciuta si intitola, per l'appunto "Uditori della Parola. E' interessante però notare che i termini cui abbiamo fatto riferimento hanno in H. un senso equivoco rispetto a quello con cui li si usa di solito. Ci si sarà resi conto che H. non si eleva al di sopra —o meglio, non riesce a uscire, dal suo immanentismo di partenza, e la sua filosofia è, nonostante i discorsi sull'Essere e sul Sacro, una filosofia atea, che certamente contiene alcuni spunti apprezzabili; se però si vogliono valorizzare questi spunti, bisogna estrarli dal contesto in cui si trovano, e correggere il loro riferimento metafisico.

Vediamo qualche punto più specifico:

1. Per quanto riguarda il rapporto uomo/linguaggio, è vero che il linguaggio in qualche modo ci è dato, e ha sfumature, risonanze, giochi che in qualche misura sfuggono al nostro intelletto nel momento in cui usa determinate parole. Ma questo non significa che il linguaggio parla nell'uomo. È l'uomo che parla, e il suo intelletto vive in un orizzonte che è pre-linguistico e superiore al linguaggio: esso gli permette, per esempio, di giudicare se e quanto una parola è adeguata ad esprimere un concetto, un sentimento, una situazione. Ovviamente, proprio perchè è pre-linguistico, questo contenuto intellettuale non può essere espresso con parole, anche se se ne ha un'esperienza abbastanza comune. La più evidente è il momento in cui si ha in testa l'idea, ma "manca la parola", e una per una si scartano le parole che ci vengono in mente perchè si "vede" che non sono quelle che stiamo cercando. La stessa "fatica" di esprimere un pensiero mediante una frase, è indice del fatto che l'uomo volta per volta crea, non si limita a lasciar parlare; come quando crea parole nuove (cosa che H. fa spessissimo), perchè quelle in uso non sono adeguate. Nel capitolo La parola H. dice che la parola dà l'essere alla cosa: ma questo può essere vero solo quoad nos, e parzialmente. La parola dà l'essere alla cosa solo nel senso che le dà un'àncora, un punto stabile d'appoggio nel nostro intelletto, ma non di più. Se poi il discorso si fa teologico (ma non è questo il discorso di H., anche se di termini e di problematiche teologiche egli risente moltissimo), si può vedere come le cose sono, grazie alla Parola (Verbum) di Dio, che è una Parola creatrice. Ma questo non vale per l'uomo, e non vale per quel "Dire originario" (almeno fino a che H. non riesce a chiarire di che cosa si tratta), che sfugge a ogni contatto con noi.

La teoria del "Quadrato" (cfr Saggi e discorsi), di cielo e terra, mortali e divini, è abbastanza sconcertante, come lo sono molte affermazioni di H. Il problema (e anche la sua soluzione) è che H. non dà dimostrazioni di ciò che dice, pretende di "mostrare" e basta. In questo è aiutato dalla sua straordinaria capacità di affascinare e stupire con scoperte di significati nuovi in parole comuni, o proposizione di parole nuove, evidenziazione di analogie e di radici comuni, che mal si possono rendere in una lingua diversa dalla sua. Si veda ad es. l'atmosfera assolutamente incantata e "sacrale" del Colloquio nell'ascolto del linguaggio.

Questo si innesta sul rifiuto del concetto e del "pensare calcolante" che vi è connesso —come modo di pensare caratteristico dell'era della metafisica—; ma resta da dimostrare che ogni metafisica non sia che uno stadio della volontà di potenza (volontà di volontà), e che implichi un'oblio dell'essere. Se questo può essere vero per le metafisiche razionaliste e idealiste, il discorso non vale per la metafisica tomista dell'actus essendi, sia come metafisica sia per l'atteggiamento che comporta nei confronti del reale; lo hanno messo molto bene in rilievo, fra gli altri, Cornelio Fabro e Raul Echauri. E' certamente vero che ci sono aspetti e dimensioni della realtà che sfuggono al pensiero concettuale, o che —essendo realtà molto elevate— per poter essere "introdotte" nel nostro intelletto vengono necessariamente impoverite, ma H. abusa di questo richiamo alla conoscenza per allusioni —per "connaturalità" direbbe Maritain seguendo san Tommaso— per giustificare salti molto azzardati. Resta il richiamo, presente del resto anche in altre opere di H., alla dimensione contemplativa della vita, che ha bisogno del silenzio e della quiete per poter essere colta.

3. Da un accenno fatto al rapporto fra essere e nulla, e dai passi in cui H. parla del rapporto fra essere e Ereignis, appare come probabilmente la sua concezione dell'essere risente ancora molto di quella hegeliana, per cui l'essere si definisce in rapporto al nulla ( essere come il nulla dell'essente); e quando nell'ultimo saggio H. afferma che l'Ereignis è prima e più ricco dell'essere se ne ricava una concezione heideggeriana dell'essere in qualche modo influenzata dall'idea di "genere supremo", o di recipiente vuoto di contenuto metafisico, propria di tanta tradizione, anche scolastica (ricordiamo gli studi di H. sulla dottrina delle categorie in Scoto).

In conclusione si tratta di un'opera certamente suggestiva, che dopo un iniziale disorientamento può affascinare, ed è certamente apprezzabile nel suo rifiuto della mentalità dominatrice e tecnico-positivistica tipica dell'età moderna, e nella ricerca di un contatto più autentico e immediato con la realtà delle cose. Ma questi aspetti positivi non riescono a controbilanciare le pesanti arbitrarietà e i chiari errori che si trovano nella esposizione del ruolo del linguaggio, nel rifiuto di ogni metafisica, del silenzio su una prospettiva religiosa della vita, ecc.

Fra gli studi su H. sono interessanti, anche se un po' difficili, quelli di CORNELIO FABRO, particolarmente i capitoli dedicati a H. in Dall'essere all'esistente, II ed., Morcelliana, Brescia 1965 e in Introduzione all'ateismo moderno, Studium, Roma 1969.

Vi sono poi ,i libri di RAUL ECHAURI, editi in Argentina, ma probabilmente reperibili in qualche biblioteca, dal titolo Heidegger e la metafisica tomista, Universidad del Litoral, Cordoba 1969, e El Ser en la filosofía de Heidegger, Universidad del Litoral, Rosario 1964.

Queste opere sono molto utili per un inquadramento e una critica d'insieme del pensiero di H., anche se trattano poco le tematiche dell'ultimo periodo del pensatore tedesco. Rispetto a quelle di Fabro, sono di lettura più scorrevole, e non richiedono una conoscenza previa del pensiero di H.

Sulle tematiche specifiche affrontate da In cammino verso il linguaggio è molto interessante l'opera di ETIENNE GILSON, Linguistique et philosophie, Vrin, Paris 1969, anche se ovviamente non si tratta dello stesso discorso, né ci sono riferimenti diretti a H.

 

                                                                                                                  A.F. (1987)

 

Volver al Índice de las Recensiones del Opus Dei

Ver Índice de las notas bibliográficas del Opus Dei

Ir al INDEX del Opus Dei

Ir a Libros silenciados y Documentos internos (del Opus Dei)

Ir a la página principal

 



[1] (1 ) Ge-Stell è un termine intraducibile, e forse la parola che più gli si avvicina in italiano, è quella usata da Vattimo nella traduzione di Vorträge und Aufsätze, di "im-posizione". Il termine Gestell significa nell'uso corrente: arnese, attrezzo, sostegno, intelaiatura, impalcatura, scheletro (quando è una sola parola). Evidenziato e fatto valere negli elementi che lo compongono (Ge— che come prefisso ha, nei sostantivi, valore collettivo; stell), il termine raccoglie in Heidegger: i modi in cui reciprocamente si atteggiano (sich stellen) l'Essere (o il Dire in cui l'Essere è), l'uomo, la natura; le operazioni nelle quali si realizzano i modi di tale atteggiarsi (operazioni espresse da H. con verbi riducentesi alla stessa radice stell: stellen —nel senso di provocare; be-stellen —nel senso di commissionare, ecc.) nell'età della tecnica moderna.