HEIDEGGER, Martin
Saggi e discorsi
Mursia, Milano 1976.
(t.o.: Vorträge und Aufsätze)
Saggi e discorsi è un'opera del secondo periodo di Heidegger, che raccoglie conferenze tenute in varie occasioni negli anni 1950-1954 e due parti di corsi universitari, inedite. Anche se con qualche ripetizione, il libro si presenta con un carattere abbastanza unitario: i due temi dominanti sono il problema della tecnica e —soprattutto— l'oltrepassamento della metafisica. E' un libro molto denso, a tratti molto profondo e molto interessante nella interpretazione della filosofia moderna. Il linguaggio di Heidegger è molto peculiare, e se a chi non ha una certa familiarità con il suo pensiero può sembrare di trovarsi di fronte a testi inintelligibili, una volta entrati nel modo di ragionare di H. ci si rende conto che egli sa bene quello che vuole dire, e sa dirlo in un modo senza dubbio affascinante, anche se a volte restano oscurità nel suo pensiero, e qualche ambiguità probabilmente intenzionale.
In questa recensione, a un'esposizione sommaria del contenuto dell'opera seguirà un'esposizione più dettagliata di ogni breve saggio. Si è scelto di lasciare numerosissime citazioni perché il linguaggio di H. non è sostituibile, anche perché a volte H. gioca non solo sulla precisione concettuale, ma sulla forza di evocazione delle parole stesse. Per questo si sono lasciati anche molti richiami all'originale tedesco.
Nelle citazioni indichiamo —ove non vi siano specificazioni in contrario— le pagine della traduzione di cui ci siamo serviti.
ESPOSIZIONE D'INSIEME
Heidegger riprende la sua tesi fondamentale secondo cui tutta la storia della metafisica, dai Greci fino a lui , è una storia dell'oblio dell'essere; la metafisica ha parlato degli enti, e ha ridotto Dio a un ente, ma ha ignorato l'essere, riducendo il pensare a un pensare "calcolante", che ha la sua compiuta realizzazione nella tecnica moderna. La tecnica, secondo H., non è un risultato dell'applicazione delle scienze esatte; al contrario, le scienze esatte sono sorte e si sono sviluppate all'unico scopo di servire la tecnica, che è originariamente espressione di una volontà di potenza, di un desiderio di dominio e di sfruttamento della natura, che è anche all'origine della metafisica. Infatti, secondo H., la metafisica si è sempre mossa (cfr. la sua analisi della causalità) sul piano del fare e non su quello dell'essere. Con la fine della metafisica può aprirsi un'epoca in cui l'uomo si rivolge all'essere con un pensare che non è più il pensare calcolante della scienza, ma un meditare, un pensare "rammemorante" che è aperto ai richiami, agli appelli dell'essere.
In alcuni dei saggi qui raccolti, H. svolge un'analisi abbastanza impietosa, ma tutto sommato appropriata, della scienza moderna, anticipando un atteggiamento che sarà proprio di due o tre decenni dopo di coscienza dei limiti epistemologici ed etici della scienza. La scienza non basta a se stessa: "La fisica in quanto fisica non può affermare nulla a proposito della fisica. Tutte le asserzioni della fisica parlano il linguaggio della fisica"(41). "Il sapere della scienza, che è obbligante nel suo ambito —cioè l'ambito degli oggetti— ha già annullato le cose molto prima che esplodesse la bomba atomica"(113). H. parla delle forme patologiche di organizzazione totale come forme di inganno per coprire un sostanziale vuoto esistenziale. Nel momento in cui il rapporto con la realtà viene visto sotto l'ottica dello sfruttamento, si apre la strada alle aberrazioni più gravi: "Al dirigismo letterario nel settore 'cultura' corrisponde, secondo una rigorosa consequenzialità logica, il dirigismo in materia di fecondazione"(62).
Dopo Nietzsche, che avrebbe smascherato la volontà di potenza —che è volontà di volontà, cioè volontà vuota— che sarebbe la caratteristica essenziale di ogni metafisica, l'epoca della metafisica si è conclusa. H. non dice se nella nuova epoca l'essere si manifesterà o se vi sarà un nuovo modo di "nascondimento". L'uomo, da parte sua, può solo porsi in atteggiamento di disponibilità e di ascolto.
Secondo H., le consuete categorie, e fra di esse il principio di causalità, valgono per gli enti, ma non per l'essere: l'essere può quindi essere colto solo in un pensare radicale, che non faccia ricorso alle categorie metafisiche. Questo pensare "rammemorante" non cerca dimostrazioni, ma cerca, nel linguaggio di un'epoca, le tracce dell'essere e del suo modo di rapportarsi all'uomo e —tramite l'uomo— al mondo. Questo pensiero deve quindi avvalersi delle ricerche filologiche ed ermeneutiche, ed è vicino alla poesia, anche se ne differenzia. L'essere non si rivela mai pienamente: mentre si dà si ritrae e rimane velato. La verità è dis-velamento (a—lètheia), è presenza dell'essere che mentre si dà (es gibt: lett. anche "c'è") nell'ente, si ritrae. L'essere si dà nella parola: il linguaggio è un modo privilegiato di manifestazione dell'essere. E' prima dell'uomo, perché gli è dato, ed è sopra l'uomo. Non è —propriamente— l'uomo, che parla, ma è il linguaggio che parla nell'uomo. Per questo bisogna "ascoltare", porsi in un atteggiamento di ricezione e di accoglimento, di accettazione del messaggio dell'essere, senza voler dominare, misurare, calcolare. Bisogna ascoltare, specialmente il linguaggio poetico.
ESPOSIZIONE ANALITICA
La questione della tecnica
L'essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico. "La tecnica è un mezzo in vista di fini": è una frase esatta, ma non vera, cioè non coglie l'essenza della tecnica. Il vero si dà solo quando si svela l'essenza.
Dire mezzo è dire causa. Ciò che noi chiamiamo causa (H. usa la parola latina), per i greci è a>i'tion: ciò che è responsabile di qualcos'altro. "Le quattro cause sono i modi, tra loro connessi, dell'esser responsabile"(7). "I quattro modi dell'esser responsabile portano qualcosa all'apparire. Fanno sì che qualcosa si avanzi nella presenza.(...) Nel senso di questo lasciar avanzare, l'esser-responsabile è il far avvenire"(8).
Il far avanzare è pro-duzione: poi'hsis. Anche la fu'sis, il "sorgere-di-per-sé" è una pro-duzione. La pro-duzione conduce dal nascondimento alla disvelatezza: a>lh'qeia, veritas, Wahrheit (verità), comunemente intesa come esattezza della rappresentazione.
La tecnica è un modo del disvelamento. Te'cnh è anche il nome delle belle arti; è sempre qualcosa di poietico (pro-duzione). Il disvelamento della tecnica moderna, però non è un pro-durre, ma un pro-vocare, che pretende di estrarre energie dalla natura per accumulare. Ha il carattere del "richiedere". Ciò che ha luogo mediante il richiedere pro-vocante, e che viene impiegato, è nella posizione di Bestand (fondo) (patrimonio, riserva ultima). E' un modo di starci di fronte opposto a quello di Gegenstand (oggetto). L'uomo è pro-vocato in un modo più originario,—è pro-vocato all'impiego— e non diventa mai puro "fondo".
"Quell'appello pro-vocante che riunisce l'uomo nell'impiegare come "fondo" ciò che si disvela noi lo chiameremo il Ge-stell, l'im-posizione"(14) (dal verbo Stellen, porre, ma Gestell, letteralmente è anche "scaffale" e "intelaiatura"; il prefisso Ge, in tedesco indica la riunione, la costituzione di un nome collettivo). "Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell'essenza della tecnica senza essere esso stesso qualcosa di tecnico"(15).
Le scienze esatte sono adoperate dalla tecnica e sono sorte a questo scopo, anche se apparentemente è avvenuto il contrario: "Resta vero, comunque, che l'uomo dell'età della tecnica è pro-vocato al disvelamento in un modo particolarmente rilevante. Tale disvelamento concerne anzitutto la natura come principale deposito di riserve di energia. Conformemente a ciò, il comportamento impiegante dell'uomo si manifesta anzitutto nell'apparire della moderna scienza esatta della natura. Il suo modo di rappresentazione cerca di afferrare la natura come un insieme organizzato di forze calcolabili. La fisica moderna non è sperimentale per il fatto che interroga la natura con la messa in opera di apparati tecnici; all'opposto: proprio perché la fisica, e ciò già come pura teoria, richiede alla natura di presentarsi (darstellen) come un insieme precalcolabile di forze, per questo è impiegato l'esperimento, per domandare se e come la natura, così richiesta, si dia (sich meldet)"(16). "E' perché l'essenza della tecnica risiede nell'im-posizione che essa deve adoperare le scienze esatte. Di qui si origina la falsa apparenza che la tecnica moderna sia scienza applicata" (17).
"L'im-posizione è la riunione di quel"porre" (Stellen) e che richiede (stellt) l'uomo di disvelare il reale come "fondo" nel modo dell'impiegare" (17-18).
"L'im-posizione è un invio del destino (Geschick: letter. il destino, ma vi gioca il collettivo Ge— e il verbo schieken, inviare, destinare; Schick è anche"dono". Geschick è quindi un inviare destinante, che è conveniente, ben adatto) come ogni modo di disvelamento (...). Sempre l'uomo è governato dal destino del disvelamento. Ma non si tratta mai della fatalità di una costrizione. Infatti, l'uomo diventa libero nella misura in cui, appunto, appartiene (gehört) all'ambito del destino e così diventa un ascoltante (ein Hörender), non però un servo (ein Höriger)" (18-19).
"L'essenza della libertà non è originariamente connessa alla volontà", ma è "l'accadere del disvelamento, ossia della verità, ciò con cui la libertà ha la parentela più stretta e più profonda" (19). "La libertà è il nascondimento illuminante-aprente (das lichtende Verbergende) nella cui apertura si dispiega quel velo che nasconde l'essere essenziale (das Wesende) di ogni verità, e che fa apparire il velo in quanto nascondente. La libertà è l'ambito del destino il quale di volta in volta traccia la via (auf ihren Weg bringt) a un modo del disvelamento (eine Entbergung)"(19).
La tecnica moderna non è un fatto, un qualcosa da accettare supinamente o da condannare come intrinsecamente cattivo: "(...) se ci apriamo autenticamente all'essenza della tecnica ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore"(19).
Il pericolo è interpretare erroneamente il disvelato. Cioè che la natura come concatenazione causale di forze sia vista in modo esatto, ma questa nasconda il vero. L 'uomo si crede il signore e gli sembra di trovare ovunque se stesso: in realtà ha perso la propria essenza. L'uomo invece esiste solo "nell'ambito di un appellare, e non può mai incontrare solo se stesso"(21).
Il secondo pericolo: "Il dominio dell'im-posizione minaccia fondando la possibilità che all'uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l'appello di una verità più principiale"(21).
"L'essenza della tecnica è in alto grado ambigua. Tale ambiguità richiama all'arcano (Geheimnis) di ogni disvelamento, cioè della verità. Da un lato l'im-posizione pro-voca a impegnarsi nel furioso movimento dell'impiegare, che impedisce ogni visione dell'evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l'essenza della verità"(25). D'altro lato, se si medita sull'essenza della tecnica, non fermandosi alle cose tecniche, il "concedere" che vi avviene porta l'uomo a guardare alla dignità della sua essenza e a tornarvi. L'essenza della tecnica dura, e "solo ciò che è concesso dura"(24).
"Ogni destino di un disvelamento accade a partire del concedere e in quanto concedere. Solo questo infatti porta all'uomo quell'aver parte al disvelamento che l'accadere del disvelamento adopera e salvaguarda (braucht). In quanto così adoperato e salvaguardato (Gebrauchte) l'uomo è traspropriato (Vereignet) all'evento (Ereignis) della verità. Ciò che concede, quello che invia nel disvelamento in questo o quel modo è come tale ciò che salva. Questo infatti fa sì che l'uomo guardi alla sua dignità suprema e vi ritorni. Questa dignità consiste nel custodire la disvelatezza e con essa sempre anzitutto l'esser-nascosto (Verborgenheit) di ogni essenza su questa terra. Proprio nell'im-posizione, che minaccia di travolgere l'uomo nell'attività dell'impiegare (in das Bestellen) spacciata come l'unico modo del disvelamento e che quindi spinge l'uomo nel pericolo di rinunciare alla propria libera essenza, proprio in questo pericolo estremo si manifesta l'intima, indistruttibile appartenenza dell'uomo a ciò che concede; tutto questo, a patto che da parte nostra cominciamo a prestare attenzione all'essenza della tecnica"(24-25).
Per gli antichi greci tecnica e arte erano accomunati: "Poiché l'essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all'essenza della tecnica e, dall'altro, ne è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l'arte"(27).
Poche pagine prima, in un inciso, H. aveva esposto chiaramente il suo modo errato di intendere la causalità, o, per lo meno, la causalità di cui parlavano san Tommaso e altri filosofi medioevali, perché la causalità in Hume è un'altra cosa (cfr le pagine su questo tema di ETIENNE GILSON, Elementi di filosofia cristiana, Morcelliana , Brescia 1964, specialmente le pp. 94-99 e 268-294).
"Così, là dove tutto ciò che è presente si dà nella luce del nesso causa-effetto, persino Dio può perdere per la rappresentazione tutta la santità e la sublimità, la misteriosità della sua lontananza. Dio, nella luce della causalità può decadere al livello di una causa efficiens. Allora, anche nell'ambito della teologia, egli diviene il Dio dei filosofi, ossia di coloro che definiscono il disvelato e il nascosto sulla base della causalità del fare, senza mai prendere in considerazione l'origine essenziale di questa causalità"(20). Sulla parte di verità e sul tranello che nascondono queste parole ritorneremo in sede conclusiva.
Scienza e meditazione
"La scienza non è (...) semplicemente un'attività culturale dell'uomo: è un modo (...) decisivo in cui si presenta a noi tutto ciò che è"(28).
Per la scienza europea moderna vale la definizione: "La scienza è la teoria del reale"(29), che viene spiegata qui di seguito.
E' diversa dall'episteme greca e dalla doctrina medioevale, comunque resta fondata su Platone.
— Che cosa significa "il reale": "Das Wirkliche (il reale) riempie l'ambito dell'operante, di ciò che opera"(30). Operare è fare. Il termine operare (che viene dalla radice indogermanica dhe, che è all'origine sia di qe'sis, sia di fu'sis) indica un modo in cui la presenza si dispiega come presente"(31).
"Realtà significa (...) lo star-dinnanzi (Vorliegen) pro-dotto nella presenza"(31). Wirken, operare, ha la radice erg in comune con e'>rgon: ma non si tratta di un efficere, bensì di un "ergersi nel non nascondimento"(31). "Per questo, e per questo soltanto, Aristotele chiama la presenza di ciò che è presente (cioè la sostanza) e>nergeia o anche e>ntele'ceia: il mantenersi— nella-compiutezza" (31). Ma questo significato di durare-nell'—opera, che è conservato in Wirklichkeit è stato perso dai romani nel tradurlo con actus. Il reale diventa il conseguente (conseguito), cioè il risultato di un'operazione. "La conseguenza è apportata (ebracht) da qualcosa che la precede, la sua causa (Ursache). Il reale appare ora nella luce della causalità della causa efficiens. Dio stesso viene rappresentato —non nella fede, ma nella teologia— come causa prima. Come conclusione, al seguito della relazione causa-effetto si pone in primo piano la successione, e con essa lo scorrere del tempo"(31-32). Inteso in questo modo, come "conseguenza", il reale si mostra ora come il Gegen-Stand, l'og-getto (ob-ieotum), ciò che sta di fronte. La parola tedesca nasce nel XVIII secolo per tradurre obiectum. "Il tipo di presenza di questa cosa presente (...) noi lo chiameremo ora oggettità (Gegenstandigkeit)"(32).
—Che cosa significa "teoria". Viene da qewrei^n (qewri'a), che deriva da due radici: 1) qe'a: "è l'aspetto, l'apparire in cui qualcosa si mostra"(32). 2) o<ra'w: guardare qualcosa, osservare, considerare. Da qui risulta che qewrei^n è: "guardare l'aspetto sotto cui la cosa presente (das Anwesende) appare, e in virtù di questa vista sostare, vedendo, presso di essa"(33). Per i greci, la theoria, e la vita teoretica, è la forma perfetta dell'esistenza umana: fa risplendere la presenza degli dei.
Le due radici di "teoria" possono suonare in un'altra accezione: 1) qe'a è la dea. 2) w'>ra è riguardo, attenzione. Quindi teoria "è il guardare, custodendo, la verità"(33).
La traduzione latina contemplatio fa perdere il senso: indica il "separare qualcosa collocandolo in una sezione e racchiuderlo in essa"(34). E' un guardare che sezione e separa. In tedesco Betrachtung da trachten: trattare, elaborare (latino tractare). "In tal senso, la teoria come contemplazione sarebbe l'insidiante-assicurante operare nel reale"(35). Da una parte, la scienza consiste nel cogliere il reale in modo puro, è "teoretica" e "indipendente da scopi". E tuttavia essa "è un operare straordinariamente attivo sul reale. (...) Nell'epoca moderna (...) la cosa presente prende posizione collocandosi nell'oggettità. (...) La scienza forma il reale (...) e lo interpella in modo che il reale di volta in volta si presenti come effettuato (Gewirk), cioè nella concatenazione constatabile di cause date. Il reale diventa così perseguibile e calcolabile"(35).
Ne consegue che il metodo ha un'importanza decisiva, perché la scienza moderna ha un procedere catturante-assicurante. Calcolare, in senso ampio, è tener conto di una cosa, aspettarsela: quindi, "ogni oggettivazione del reale è un calcolare" (36). La scienza moderna deve quindi delimitare i vari campi di oggetti, secondo il loro modo di essere.
La fisica, per esempio, considera la natura nella misura in cui essa si prospetta come inanimata. "La natura, nella sua oggettitá per la scienza moderna, è solo uno dei modi in cui ciò che è presente e che da sempre viene chiamato fu'sis, si manifesta e si offre all'elaborazione scientifica(...) [Quindi] la rappresentazione scientifica non può mai racchiudere l'essenza della natura (...). La natura rimane così, per la scienza fisica, l'inaggirabile (das Unungängliche)"(39). Inaggirabile perché: a) la teoria dipende sempre da ciò che è presente; b) la scienza non abbraccia mai la pienezza della natura, a causa dell'oggettità.
Lo stesso avviene per altre scienze. "L'e-sistere (Da-sein) (...) rimane l'inaggirabile della psichiatria"(40). La storiografia (Historie, storia nel senso di scienza storica) è l'esplorazione dei fatti della storia (Geschichte, storia come avvenimenti): la storia (Geschichte) è l'inaggirabile. Nella filologia il linguaggio è l'inaggirabile.
"L'inaggirabile domina nell'essenza della scienza"(41). Le scienze non possono mai rappresentare la propria essenza. Per esempio, "la fisica in quanto fisica non può affermare nulla a proposito della fisica. Tutte le asserzioni della fisica parlano il linguaggio della fisica"(41).
"Lo stato di cose che domina l'essenza della scienza (...) è l'inaccessibile inaggirabile che passa costantemente inosservato"(42). H. vuole richiamarvi l'attenzione per indirizzare sulla via di "ciò che è degno di esser domandato"(das Fragwürdige: lett. anche "il problematico"). Camminare in questa direzione è un ritorno in patria. La meditazione è il tranquillo abbandono a ciò che è degno di esser domandato"(43). E' diversa dalla coscienza, dal sapere della scienza, dalla cultura. Il luogo del nostro soggiorno è qualcosa di storico, che ci è assegnato (zugewiesen). Finisce l'epoca della cultura, intesa come Bildung, e inizia quella della meditazione essenziale, in risposta all'appello del Fragwürdige.
"Occorre meditazione, ma non per superare un accidentale stato di perplessità o per vincere la resistenza che si oppone al pensiero. Occorre meditazione, come una risposta che si dimentica di se stessa nella chiarita di un incessante domandare rivolto all'inesauribilità di ciò che è degno di essere domandato, e in forza di cui il rispondere, nel momento appropriato, perde il carattere del domandare e diviene un semplice dire"(44).
Osservazioni: è per lo meno discutibile quanto H. dice sui termini latini e actus e contemplatio. Soprattutto per quanto riguarda actus sarebbe necessario riferirsi a un'analisi del lessico di almeno qualcuno fra i grandi metafisici medioevali. Non sembra, per esempio, che in Tommaso d'Aquino —che H. conosce molto male—, actus abbia il senso di "risultato di un'azione" che H. gli assegna.
—La distinzione fra il Dio della fede e il Dio della teologia (se per teologia intendiamo la teologia cristiana) è assolutamente arbitraria, e deriva da premesse heideggeriane su cui ci fermeremo brevemente in sede conclusiva.
—E' vero che la filosofia classica ha definito la verità come adaequatio, ma lo ha fatto —ancora una volta ci riferiamo a san Tomaso— sulla scorta di un riconoscimento del carattere di verum proprio di ogni ente. E' l'essere che fonda la verità del giudizio, perché nel giudizio vero è colto che è ciò che è. L'essere come "verità ontologica" permette all'intelligenza di formulare un giudizio vero. In questo san Tommaso è molto attento a fare tutte le varie distinzioni che sono necessarie a non escludere nessun aspetto della verità: cfr Quaestiones disputatae de veritate, I, 1, e anche il commento che ne fa Josef Pieper in Verità delle cose, Massimo, Milano 198. Invece H., non sembra andare al di là dell'affermazione della verità come dis-velamento, senza approfondire i rapporti fra l'intelligenza e l'essere, e senza motivare la possibilità di un errore nell'intelligenza.
Oltrepassamento della metafisica
E' un saggio di circa venti pagine, suddiviso in XXVIII paragrafi, contraddistinti da numeri romani. Citeremo il paragrafo.
La metafisica è trapassata, e ritorna sotto forma diversa. E' il punto estremo dell'oblio dell'essere. L'uomo come animal rationale, è diventato animale da lavoro, volontà di volontà, cioè volontà de nulla. "Prima che l'essere possa accadere nella sua verità principiale bisogna che l'essere sia infranto come volontà, che la terra sia ridotta alla devastazione(...)"(III). Il tramonto è accaduto, e sta iniziando l'era nuova.
La metafisica, di cui H. richiama tre passi fondamentali —Cartesio, Kant, Hegel— ha il suo compimento nella volontà di volontà. "Caratteristico della metafisica è il fatto che in essa, in generale, dell'existentia non si parla affatto", o tutt'al più "come qualcosa di ovvio"(VII). "L'unica eccezione è costituita da Aristotele, che pensa a fondo l'e>ne'rgeia (...)" (VII).
Tuttavia questo estremo oblio dell'essere e la preminenza dell'essente come volontà di volontà è un destino necessario perché l'essere stesso possa illuminare-aprire (lichten)la differenza ontologica (differenza fra l'essere e l'essente).
Con l'inizio del compimento della metafisica c'è il primo passo verso il di-spiego (Zwiefalt) dell'essere e dell'essente. L'oltrepassamento della metafisica è pensato da un "pensiero rammemorante"(Andenken), che "esperisce l'unico evento dell'espropriazione (Enteignung) dell'essente, in cui si illumina la condizione di bisogno (Not) della verità dell'essere, e così la principialità (Anfängnis) della verità, in cui l'essenza dell'uomo getta un ultimo bagliore prendendo congedo (abschiedlich uberleuchtet). L'oltrepassamento è la tra-duzione (Ueberlieferung [lett.: tradizione]) della metafisica nella sua verità" (IX).
Il significato di Nietzsche non è l'annullamento del soprasensibile, "ma in realtà è soltanto l'oblio dell'essere che viene portato a compimento, e il soprasensibile riceve via libera e viene messo in azione come volontà di potenza"(IX).
"La volontà di volontà irrigidisce ogni cosa nell'assenza di destino. La conseguenza di ciò è la astoricità (das Ungeschichtliche). E il suo segno è il dominio della storiografia (Historie [storia come scienza storica]). L'aporia di questo è lo storiografismo (Historismus)"(X). "Le forme della manifestazione della volontà di volontà sono il calcolo e l'organizzazione totale, in una parola la tecnica, intesa in senso molto ampio come 'metafisica compiuta'"(X).
A Nietzsche, che è ancora un po' "psicologo", mancano il rigore e la calma del concetto. Nietzsche, esaltando il genio creativo, è ancora in un ambito tecnicistico, produttivo. "Con la metafisica di Nietzsche la filosofia è compiuta. Ciò vuol dire che essa ha percorso tutto l'arco delle possibilità che le erano assegnate"(XII). Ma con la fine della filosofia il pensiero ha un altro cominciamento: ora pensa in riferimento alla storia dell'essere (è seingseschichtliches Denken). Nella metafisica "l'essere rimane non interrogato e inteso come ovvio e quindi non pensato. Esso si tiene in una verità da lungo tempo dimenticata e senza fondamento (grundlos)"(XIV). L'essere "senza fondamento" (fondamento come grund) non è per H. un qualcosa di negativo, o una mancanza.
"XV. L'oggetto (Gegenstand) nel senso di ob-ietto si dà solo quando l'uomo diventa soggetto, quando il soggetto diventa io e l'io diventa ego cogito, solo quando questo cogitare viene concepito nella sua essenza come "unità originariamente sintetica dell'appercezione trascendentale", solo quando il punto supremo della "logica" è raggiunto (nella verità come certezza dell' "io penso"). Solo qui si svela l'essenza dell'oggetto nella sua oggettità. Solo qui diventa in seguito possibile e inevitabile concepire l'oggettità stessa come"il nuovo oggetto vero" e di pensarlo fino all'incondizionatezza (ins Unbedingte).
XVI.Soggettità, oggetto e riflessione sono connessi. Solo quando la riflessione viene esperita come tale, cioè come il rapporto reggente all'essere, solo allora l'essere diventa definibile come oggettità.
L'esperienza della riflessione intesa come tale rapporto, tuttavia, presuppone che in generale il rapporto all'essente sia esperito come repraesentatio: come rap-presentare (Vorstellen).
(...) Nella sua essenza, la repraesentatio si fonda sulla reflexio. Per questo l'essenza dell'oggettità come tale diventa manifesta solo quando l'essenza del pensiero viene riconosciuta e specificamente esercitata come "io penso qualcosa", cioè come riflessione".
Quindi: dall'essere, all'oggetto, alla rappresentazione, alla riflessione; la filosofia diventa egotica: un'egoità che appare "nella forma del certum, della certezza la quale non è altro che l'assicurazione del rappresentato per il rappresentare"(XVIII). E' un'egoità che è presente anche nelle filosofie collettiviste, perché non fa riferimento all'io empirico, singolo. La filosofia "egotica" è quindi antropologia: "La filosofia propria dell'epoca della metafisica compiuta è l'antropologia"(XVIII). La tecnica (assicurazione di "fondi") e l'assenza di meditazione (lo Erlebnis) nella volontà di volontà assumono il predominio. Tecnica e assenza di meditazione sono un'unica cosa. L'umanità diventa la forza originaria, la volontà di potenza principio di esattezza, di sicurezza: la verità è perduta.
Viene sviluppata la volontà formale di Kant: la volontà di volontà è assoluta mancanza di scopi. Per legittimarsi "escogita il discorso della 'missione'"(XXIII).
"Il dolore che anzitutto bisogna provare e sostenere fino alla fine è il comprendere e sapere che l'assenza di bisogno (Notlosigkeit) è la massima e più nascosta indigenza (Not), che solo dalla distanza più remota si fa sentire su di noi. L'assenza di bisogno consiste nel credere di tenere in mano e di conoscere il reale e la realtà, che cosa sia vero, senza aver bisogno di sapere dove dispieghi il proprio essere (west) la verità.
L'essenza del nichilismo, nel senso della storia dell'essere, è l'abbandono dell'essere in quanto in tale abbandono accade che l'essere si lascia andare nel fare e nel macchinare"(XXV).
"I segni dell'ultimo abbandono dell'essere sono gli appelli in nome delle 'idee' e dei 'valori', la confusa altalena fra la professione di fede nell'azione' e quella nell'indispensabilità dello 'spirito'. Tutto questo è già organicamente inquadrato entro il meccanismo dell'apparato che serve al processo di ordinamento.
(...) La consumazione dell'essente, come tale e nel suo svolgersi, è determinata dall'apparato (Rüstung) inteso in senso metafisico, mediante cui l'uomo si rende 'signore' del mondo 'elementare'. La consumazione comprende l'uso (Gebrauch) regolato dall'essente, che diviene occasione e materia di realizzazioni e del loro incremento. Questo uso viene utilizzato a beneficio dell'apparato. Ma nella misura in cui quest'ultimo dà luogo all'incondizionatezza dell'accrescimento e dell'assicurazione di sé, e in verità ha come scopo l'assenza di scopo, questo usare è un usurare"(XXVI). Le guerre mondiali e il loro carattere di totalità sono una conseguenza dell'abbandono dell'essere. Sopprimono la differenza fra guerra e pace.
L'elemento animale è sempre più pianificato: è pensabile che un giorno ci siano fabbriche di materiale umano. "Al dirigismo letterario nel settore 'cultura' corrisponde (...) il dirigismo in materia di fecondazione"(XXVI).
"Poiché il vuoto dell'essere (...) non è mai suscettibile di venir riempito dalla pienezza dell'essente, l'unica via per sottrarvisi è la continua organizzazione dell'essente in vista della possibilità permanente di un'attività ordinante in quanto forma dell'assicurazione dell'agire senza scopo. La tecnica, da questo punto di vista, in quanto è legata senza saperlo al vuoto dell'essere, è l'organizzazione della penuria (des Mangels)"(XXVI).
Il mondo diventa non-mondo; si fa violenza alla terra per sfruttarla. Bisogna invece aprirsi all'evento (Ereignis), e avviarsi nella "via del costruire pensante e poetante"(XXVIII).
Chi è lo Zatathustra di Nietzsche?
Zarathustra è un Fürsprecher, uno che parla per, cioè: davanti, a favore di, e in difesa di. E' un 'avvocato'. A un'analisi superficiale Zarathustra "si presenta come il portavoce del fatto che ogni essente è volontà di potenza, la quale, come volontà creatrice che urta contro se stessa, soffre, (Zarathustra è chiamato anche "il convalescente") e così vuole se stessa nell'eterno ritorno dell'uguale" (67). Ma bisogna andare più a fondo.
Zarathustra deve divenire il maestro dell'eterno ritorno, e ne ha paura. All'inizio, Zarathustra annuncia il superuomo, che non è un superman, ma "quell'uomo che va oltre l'uomo così come è stato e come è, soltanto per portare finalmente l'uomo attuale in quella sua essenza che ancora gli manca e stabilirlo in essa" (69). L'uomo deve prepararsi ad assumere il dominio della terra. Ma la prosecuzione del pensiero di Nietzsche, per H. consiste in un "passo indietro", che rimanda a un già-stato (Gewesen), il cui cominciamento attende ancora un pensiero rammemorante (Andenken) che lo faccia diventare un inizio, inizio che l'ora mattutina fa apparire"(70). Il superuomo è un ponte. Il "verso dove" del ponte è lontano, ma in quanto pensato è vicino: il suo pensiero è nostalgia. "La nostalgia è il dolore della vicinanza del lontano" (71).
Ecco l'inizio del brano Della grande nostalgia di Zarathustra: "Anima mia, io t'insegnai a dire 'oggi' come se fosse 'un giorno' e 'un tempo' e a danzare al di sopra di ogni 'qui' e 'lì' la tua danza circolare"(71). Nietzsche vuole raggiungere la continuità dell'eternità non mediante uno stare, ma in un ritorno dell'uguale. Zarathustra dice: "Che l'uomo sia redento dalla vendetta —questo è per me il ponte verso la speranza suprema (...)"(72). La vendetta è un contrapporsi per abbassare l'opposto, ed è propria di chi è stato vinto. E', dice Zarathustra, "l'avversione della volontà contro il tempo e il suo 'così fu'" (75). Il tempo è qualcosa contro cui la volontà non può nulla. "La vendetta più profonda consiste per Nietzsche in quella riflessione che pone come ideali sovratemporali, in confronto con i quali il temporale non può non abbassare se stesso fino a considerarsi propriamente come il non-essente"(76). Per far scomparire lo spirito di vendetta bisogna affermare il tempo e il passare.
Zarathustra insegna il superuomo perché insegna l'eterno ritorno dell'uguale, e viceversa. L'eterno ritorno è il pensiero "più abissale"; per questo viene espresso per ultimo, e in modo esitante. Questo pensiero resta enigmatico anche per Zarathustra. "Non si lascia confutare o dimostrare su basi logiche o empiriche, questo vale fondamentalmente per ogni pensiero essenziale di ogni pensatore: visione, ma anche enigma: degno di interrogazione [lett.: frag-würdig: problematico]" (78). Ma l'insegnamento di Zarathustra non porta la redenzione dalla vendetta, è ancora un pensiero di ambito metafisico, anche se ribalta la gerarchia platonica sensibile/soprasensibile. Per Nietzsche, Zarathustra è l'avvocato di Dioniso, cioè del sensibile, inteso in senso ampio e "essenziale". Ma ogni grande pensiero rimane sempre indietro rispetto a se stesso. H. non dà una soluzione per la figura di Zarathustra; comunque afferma: "Eterno ritorno dell'uguale è il termine che indica l'essere dell'essente. 'Superuomo' è il termine che indica l'essenza dell'uomo che corrisponde a tale essere"(81). Ma per poter fare passi avanti è necessario superare la definizione di uomo come animale razionale, residuo metafisico. Anche Nietzsche —benché il suo pensiero possa nascondere qualcosa di "più abissale" della metafisica— si muove ancora all'interno di un ambito metafisico.
Con il richiamo alla visione dei due animali simbolo di fierezza e intelligenza H. svolge le considerazioni conclusive.
"L'enigma di chi sia Zarathustra come maestro dell'eterno ritorno e del superuomo diventa per noi visione nello spettacolo di due animali. In questa visione possiamo immediatamente e con maggior chiarezza afferrare ciò che questa esposizione ha cercato di mostrare: il rapporto dell'essere all'animale (Lebewesen) uomo.
'Ecco! Un'aquila volteggiava in larghi circoli per l'aria, ad essa era appeso un serpente, non come una preda, ma come un amico: le stava infatti inanellato al collo.
'Sono i miei animali!', disse Zarathustra, 'e gioì di cuore' "(81).
Che cosa significa pensare?
"La memoria è il raccogliersi del pensiero (...) in ciò che ci tiene nell'essenza"(85). Dobbiamo ancora imparare a pensare: "Il pensiero lo impariamo nella misura in cui facciamo attenzione a ciò che è da considerare"(86), cioè "il più considerevole" (Bedenklichst). L'interesse attuale per la filosofia non indica, di per sé, disposizione a pensare. Anzi, il "filosofare" può dare l'illusione di pensare. "Il considerevole non è affatto costituito da noi, (...)Il considerevole dà: esso ci dà da pensare. Dà ciò che ha presso di sé"(87). Noi non pensiamo ancora perché ciò che è da-pensare si è distolto da lungo tempo dall'uomo. Ma il distogliersi è dove è già stato un volgersi verso: il distoglimento avviene in un avvicinarsi. La scienza in questo discorso non c'entra. Essa non pensa. "Non c'è un ponte che conduca dalla scienza al pensiero; l'unico passaggio possibile è il salto"(88). Salto verso una regione diversa. "Ciò che in essa ci diventa visibile non è qualcosa che si possa in nessun caso dimostrare"(88): si può mostrare. "Noi siamo noi stessi (...) solo in quanto additiamo ciò che si sottrae. Questo additare (Weisen) è la nostra essenza (Wesen). (...) L'uomo è colui che indica. (...) Ciò che (...) nella sua costituzione più propria è qualcosa che indica noi lo chiamiamo un segno (Zeichen). (...) L'uomo è un segno"(89-90).
H.cita un progetto di un inno di Hölderlin; "Un segno noi siamo, che nulla indica...". Uno dei titoli previsti era quello di Memoria. "Memoria è il raccogliersi della rimemorazione (Andenken) presso ciò che è prima di ogni altra cosa da-considerare (zu-Bedenkende)" (91). Il poeta e il pensatore possono dire in modi diversi la stessa cosa, ma solo quando la poesia è alta e il pensiero è profondo, e l'abisso che li divide rimane aperto. Sul "pensare" si fonda anche la poesia e tutte le arti.
La cosa che ci resta da fare è "attendere che il da-pensare si rivolga a noi (...). Attesa significa qui: tenere gli occhi aperti cercando, in ciò che è già stato pensato, la via verso il non pensato che ancora nel già pensato si nasconde"(93). L'attesa è quindi già un pensare.
H. cita il frammento VIII 34-36 di Parmenide, da cui viene in luce che "il pensiero, in quanto percepire riceve la sua essenza dall'essere dell'essente" e "l'essere dell'essente vuol dire presenza del presente (Anwesen des Anwesendes, Präsenz des Präsenten). Questa risposta è un salto nel buio"(94).
"Il pensiero, in quanto presentazione, consegna la cosa presente alla sua relazione con noi, la stabilisce ri-ferendola a noi. La presentazione è così rap-presentazione.
(...) L'essere dell'essente, all'inizio della storia dell'occidente, e per tutto il suo corso, appare come presenza, come Anwesen (...). Essere significa presenza. Questo tratto fondamentale dell'essere, che è così facilmente enunciabile, diventa però pieno di mistero nel momento in cui ci risvegliamo e consideriamo verso dove ciò che noi chiamiamo presenza rinvia il nostro pensiero"(94-95). Alla presenza appartengono i caratteri della disvelatezza e della presenza temporale (Gegenwart); probabilmente i due caratteri sono connessi.
"Noi non pensiamo ancora veramente, finché resta non pensato ciò in cui risiede l'essere dell'essente quando appare come presenzialità (Anwesenheit)"(95). Esso è il da-pensare, e non è ancora per noi divenuto degno di essere pensato (denk-würdig). "Noi ancora non pensiamo autenticamente. E' per questo che domandiamo: che cosa significa pensare?"(95).
Costruire, abitare, pensare
"La parola che ci parla dell'essenza di una cosa ci viene dal linguaggio, perché noi sappiamo fare attenzione all'essenza propria di questo.(...) L'uomo si comporta come se fosse lui il creatore e il padrone del linguaggio, mentre è questo, invece, che rimane signore dell'uomo"(97). Questo rovesciamento di rapporto è uno dei motivi dell'estraniazione (Unheimische) dell'uomo. Il linguaggio è l'appello supremo che viene rivolto all'uomo.
Dire che l'abitare è il fine del costruire è povero, e usare lo schema fine-mezzo preclude la via ai rapporti essenziali.
Con un'analisi dei termini e delle radici, H. conclude che "costruire significa originariamente abitare. (...) Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra è il Buan, l'abitare. Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare"(97).
Nell'abitare, oltre al costruire c'è anche il senso del "coltivare" ciò che cresce da solo.
"Proprio alle parole essenziali di una lingua accade che ciò che esse propriamente dicono cada facilmente nell'oblio (...)"(98). L'appello del linguaggio diventa quindi silenzioso, ma non muto.
Dopo un'altra analisi di termini: "Abitare, esser posti nella pace, vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente (Frye) (e ci libera dal male, ci protegge: Friede, pace; Freie, ciò che è libero; fry, preservato da mali e minacce) e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza"(99).
Abitare è il soggiornare dei mortali sulla terra: "Ma 'sulla terra' significa già 'sotto il cielo'. Entrambi significano insieme 'rimanere davanti ai divini' (die Göttlichen) e implicano una 'appartenenza alla comunità degli uomini'. C'è una unità originaria entro la quale i Quattro: terra e cielo, i divini e i mortali, sono una cosa sola.
(...) Questa loro semplicità noi la chiamiamo il Geviert, la Quadratura [lett."il quadrato", ma Ge— viert è anche "riunione dei quattro"]. I mortali sono nella Quadratura in quanto abitano. Ma il tratto fondamentale dell'abitare è l'aver cura. I mortali abitano nel modo dell'aver cura della Quadratura nella sua essenza. L'abitante aver cura è quindi quadruplice"(99-100). Salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali. Si tratta di un soggiornare presso le cose, lasciandole nella loro essenza.
H. fa l'esempio di un ponte, ed esamina come esso riunisca presso di sé i quattro. Esso accorda un posto" alla Quadratura, ma solo in quanto ha un luogo. Fra spazio e luogo viene prima il luogo che dà l'essenza allo spazio. Lo spazio è astrazione da distanze fra luoghi, espresse da semplici punti. Lo spazio come extensio, a sua volta, si lascia ridurre a relazioni analitico-algebriche. Gli spazi che percorriamo sono aperti da luoghi, che si fondano sulle cose. Il pensare a una cosa distante non è un puro Erlebnis interno alla persona, ma è essere presso quella cosa.
Abitare è soggiornare presso cose e luoghi. "Il rapporto dell'uomo ai luoghi, e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell'abitare. La relazione di uomo e spazio non è null'altro che l'abitare pensato nella sua essenza" (105).
Il costruire è quindi erigere luoghi, dimore della Quadratura: ap-porta la Quadratura in una cosa. Il produrre ( ti'kto), anche se ricollegato a te'cnh (far apparire che porta un pro-dotto nella presenza già costituita) è essenzialmente un "far abitare". "Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire" (107).
"Costruire e pensare sono sempre secondo il loro diverso modo, indispensabili per l'abitare (...). La vera crisi dell'abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell'essenza dell'abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare" (108).
La cosa
"Nonostante ogni superamento delle distanze (es. mass media) la vicinanza di ciò che è continua a mancare" (110).
Che cos'è una cosa? E, per esempio, una brocca? Qualificarla un recipiente è pensare il sussistere in sé in base alla produzione. "Se partiamo dall'oggettività dell'oggetto (Gegenstand) e di ciò che è autonomo (Selbstand non troveremo mai la via della cosalità della cosa. (...) Ciò che (...) il recipiente che ha questo aspetto è in quanto questa brocca, che cosa e come la brocca in quanto questa cosa-brocca è non si può mai capirlo guardando all'aspetto, all' ide'a, e tanto meno pensarlo, così, adeguatamente. Proprio per questo Platone, che si rappresenta la presenza di ciò che è presente in base all'aspetto, ha pensato l'essenza della cosa altrettanto poco quanto Aristotele e tutti i pensatori successivi" (111).
Sembra che l'essenza della brocca non sia nelle pareti né nel fondo, ma nel vuoto che contiene. La scienza ha una visione diversa. "La scienza coglie sempre soltanto ciò a cui il suo modo di rappresentazione le dà accesso, ammettendolo come un suo possibile oggetto. (...) La scienza annulla la cosa-brocca, in quanto non ammette la cosa come la realtà basilare. Il sapere della scienza, che è obbligante nel suo ambito —cioè l'ambito degli oggetti— ha già annullato le cose molto prima che esplodesse la prima bomba atomica. Questa esplosione è solo la più grossolana di tutte le grossolane conferme della già da lungo tempo accaduta annichilazione della cosa; (...) (112-113).
"L'esser brocca della brocca si dispiega nell'offerta del versato" (114). H. spiega come: "Nell'offerta del versare permangono insieme terra e cielo, i mortali e i divini" (115), riconducendo il termine versare all'offerta sacrificale. "L'essenza della brocca è il puro offerente riunirsi della semplicità della Quadratura in un permanere" (115). Il riunirsi ha una parola antica: thing, che si collega a Ding, cosa. "La cosa coseggia (Das Ding dingt). Il coseggiare riunisce" (115).
"La parola romana res indica ciò che concerne l'uomo, la questione, la cosa in discussione, il caso. (...) La realitas della res viene esperita dai romani come un concernimento (Angang), Ma i romani non hanno mai pensato questa loro esperienza propriamente nella sua essenza. Invece, la romana realitas della res viene rappresentata, riprendendo la filosofia della tarda grecità, nel senso del greco >o'n; >o'n, in latino ens, significa ciò che è presente nel senso del pro-veniente (Herstand). La res diventa l'ens, la cosa presente nel senso di ciò che è pro-dotto e rappresentato (her— und vorgestellt). La specifica realitas della res esperita originariamente dai romani come "ciò che concerne" rimane, in quanto essenza della cosa presente, seppellita e nascosta. Per converso, il termine res, nelle epoche successive, specialmente nel Medioevo, serve a indicare ogni ens qua ens, cioè ogni ente che sia in qualche modo presente, anche quando ad-sta (hersteht) ed è presente solo come ens rationis" (116117).
"La brocca non è una cosa né nel senso della romana res, né nel senso dello ens rappresentato alla maniera del Medioevo, né nel senso dell'oggetto del pensiero moderno. La brocca è cosa in quanto coseggia riunendo (dingt)"(118). La cosa coseggiando avvicina i Quattro nelle loro lontananze. "Ciascuno dei Quattro si dà a ognuno degli altri. (...) Nessuno dei Quattro si irrigidisce in ciò che ha di specificamente proprio" (119). E' un gioco di specchi.
"I divini sono i messaggeri della divinità, che ci fanno segno. Nel nascosto dispiegarsi di questa il Dio appare venendo nella sua essenza, che lo sottrae a ogni confronto con ciò che è presente.
(...) I mortali sono gli uomini. Si chiamano così perché possono morire. Morire significa essere capaci della morte in quanto morte. Solo l'uomo muore. L'animale perisce. Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé, né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente essente, e che tuttavia è (west), e addirittura si dispiega con il segreto dell'essere stesso. La morte, in quanto scrigno del nulla, alberga in sé ciò che è essenziale dell'essere. (...) La metafisica invece, si rappresenta l'uomo come animal, come essere vivente" (119).
Il facente-avvenire-traspropriante gioco di specchi della semplicità di terra e cielo, divini e mortali, noi lo chiamiamo il mondo (119). Il mondo mondeggia in modo inspiegabile e infondabile con le nostre categorie. Il gioco di specchi è una danza ad anello (Ring) che libera i Quattro aprendoli verso la loro essenza. H. usa anche la parola Gering: lett. modesto, di poco conto; qui, sfruttando le assonanze, anche nel senso di "giro". Il coseggiare è qualcosa di poco conto (gering), ed è avvicinare il mondo. "L'assenza della vicinanza nonostante l'eliminazione delle lontananze ha portato al dominio del senza-distanza" (121).
Le cose non vengono in forza di operazioni dell'uomo, ma richiedono la vigilanza dei mortali. "Il primo passo verso una tale vigilanza è il passo indietro dal pensiero puramente rappresentativo, cioè spiegante-fondante (erklärende) al pensiero rammemorante" (121).
"Solo gli uomini come mortali, abitandolo, ottengono il mondo come mondo. Solo ciò che appare dal mondo e nel mondo come qualcosa di poco conto, potrà un giorno diventare cosa (Nur was aus Welt gering, wird einmal Ding)" (122).
Postilla: è una lettera a un giovane studente, che gli richiedeva di fondare rigorosamente le sue affermazioni.
H. ripete che il suo è un pensiero in cammino, esposto al rischio dell'errore, una meditazione che cerca l'essere, ma che non ha documenti di legittimazione.
"...Poeticamente abita l'uomo..." (...dichterisch, wohnet der Mensch...)
In questo saggio, H. commenta un testo di Hölderlin; eccolo:
Può un uomo, quando la sua vita non è che pena
Guardare il cielo e dire: così
Anch'io voglio essere? Sì. Fino a che l'amicizia
L'amicizia schietta ancora dura nel cuore
Non fa male l'uomo a misurarsi
Con la divinità. Dio è sconosciuto?
E' egli manifesto e aperto come il cielo? Questo
Piuttosto io credo. Questa è la misura dell'uomo.
Pieno di merito, ma poeticamente, abita
L'uomo su questa terra. Ma l'ombra
Della notte con le stelle non è,
Se così posso osar di parlare, più pura
Dell'uomo, che si chiama immagine della divinità.
C'è sulla terra una misura? No.
Non ce n'è alcuna (130).
"Poetare è l'autentico far abitare. (...) Poetare, in quanto far abitare, è un costruire" (126). Si può cercare di andare all'essenza di una cosa solo grazie all'appello rivolto dal linguaggio. "E' il linguaggio che parla" (127). L'uomo ascolta, e risponde, poetando.
Cfr. i versi centrali: i meriti del coltivare-costruire non esauriscono l'abitare, anzi lo impediscono se vengono inseguiti di per sé. "L'uomo su questa terra": il poetare non abbandona la terra, ma porta l'uomo ad essa.
Poetare e pensare, se rimangono nella loro essenza, portano l'uomo al medesimo (das selbe) che non si identifica mai con l'uguale (das gleiche). "Il medesimo (...) è la reciproca appartenenza del differente a partire dalla riunione operata dalla differenza. Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza. (...) Il medesimo esclude ogni ansia di risolvere il differente sempre solo nell'uguale. Il medesimo riunisce il differente in un'unione (Einigkeit) originaria" (129).
L'uomo si misura con il cielo. Poetare è il modo eminente del misurare. La misura è la divinità, proprio in quanto è un Dio sconosciuto. E' l'apparire del Dio in quanto è nascosto ed è manifesto mediante il cielo. "Solo questa misura attinge, misurandola, tutta l'essenza dell'uomo" (133). "L'essenza della misura non è un quantum, come non lo è l'essenza del numero" (134). "Il poeta, negli aspetti del cielo, chiama quello che proprio nello svelarsi fa apparire ciò che si nasconde, e in quanto è ciò che si nasconde" (134).
"L'essenza dell'immagine è nel far vedere qualcosa (...). Poiché il poetare prende quella misteriosa misura che trova nell'aspetto del cielo esso parla in immagini" (135).
"Potrebbe darsi che il nostro abitare impoetico, la sua incapacità di prender la misura, derivi da uno strano eccesso di furia misurante e calcolante. (...) Ma l'uomo è capace (vermag) del poetare sempre soltanto nella misura in cui la sua essenza è traspropriata (vereignet) a ciò che da parte sua ama e rende possibile (mag) l'uomo, e che perciò adopera e salvaguarda (braucht) la sua essenza" (136-137).
Questo amore, amicizia (cfr. i versi: "l'amicizia schietta...") è la ca'riV di cui parla Sofocle nell'Aiace (v. 522).
"Fino a che dura questo venire della grazia (Huld) è bene che l'uomo si misuri con la divinità. Se questo misurarsi accade, allora l'uomo fa poesia (dichtet) a partire dall'essenza del poetico. E se accade il poetico, allora l'uomo abita poeticamente su questa terra; allora, come dice Hölderlin nella sua ultima poesia, "la vita dell'uomo" è un "vivere abitando" (137).
Logos
H. commenta il frammento 50 di Eraclito:
ou>c e>mou ~a>lla` tou ~Lo'gou
a>kou'santaV
o<mologein~ sofo'n e>stin E'<n Pa'nta
La traduzione che di solito se ne dà è la seguente:
"Se non me, ma il Senso avete inteso,
Allora è saggio dire nello stesso senso: Tutto è uno" (141).
H. svolge una lunga analisi filologica di questo frammento. "Ciò che sia il lo'goV lo possiamo desumere dal le'gein. Che significa le'gein? Chiunque conosca la lingua greca sa che le'gein significa dire' e parlare'; lo'goV significa: le'gein come enunciare e lego'menon come ciò che è enunciato'" (142). H. risale a un significato più originario di le'gein, che è accostato a legen, posare, a lesen, che corrisponde al latino legere (secondo il traduttore italiano Vattimo), più ampio dell'italiano leggere.
"Ma le'gein, posare, nel suo 'lasciar-stare-insieme— dinnanzi' (beisammen-vor-liegenlassen) significa proprio che ciò che sta dinnanzi ci importa (anliegt) e per questo ci concerne (angeht)" (144).
"Dire è le'gein. Questa affermazione, se viene considerata con attenzione, ha perso ora tutto ciò che poteva avere di banale, di consunto, di vuoto. Essa nomina il segreto impensabile del fatto che il parlare del linguaggio accade a partire dalla disvelatezza di ciò che è presente e si determina, conformemente allo star-dinnanzi delle cose presenti, come "lasciar-stare-insieme-dinnanzi". (...) Dire è raccolto-raccogliente lasciar-stare-insieme-dinnanzi. Se le cose stanno così per quanto riguarda l'essenza del parlare, che cosa sarà l'udire? In quanto le'gein, il parlare non si determina in base al suono inteso come l'espressione di un senso. Se quindi il dire non viene definito in base all'emissione di suoni, anche l'udire che gli corrisponde non potrà primariamente consistere nel fatto di captare un'onda sonora che colpisce l'orecchio ritrasmettendo ad altri organi i suoni che agiscono sul nostro udito. Se il nostro udire fosse primariamente e sempre questo captare e ritrasmettere suoni, a cui in seguito verrebbero ad associarsi altri processi, allora sarebbe vero che un suono ci entra da un orecchio e ci esce dall'altro. E' ciò che di fatto accade quando non siamo raccolti in ciò che ci viene detto. Quel che ci vien detto, però, è esso stesso ciò-che-sta-dinanzi, raccolto e presentato a noi (das gesammelt vorgelegte Vorliegende). L'udire è propriamente questo raccogliersi, che si raccoglie sulla parola che ci è annunciata e rivolta. L'udire è primariamente il raccolto ascoltare. E' nella capacità di ascoltare che si dispiega l'essenza (west) dell'udire" (145-146).
Per udire autenticamente non basta ascoltare il suono di una parola come espressione di un parlante: "Abbiamo udito (gehört), quando apparteniamo (gehören) a ciò che ci viene detto. Il parlare della parola che ci viene rivolta è le'gein, lasciar-stare-insieme-dinnanzi. Appartenere alla parola che ci è detta non vuol dire altro che questo: ogni volta lasciar stare insieme dinnanzi nel suo complesso (Gesamt) ciò che un lasciar-stare-dinnanzi ci presenta. Un tale "lasciar stare" posa (legt) ciò che sta dinnanzi come uno stante dinnanzi. Lo posa come esso stesso. Esso posa un qualcosa (Eines) e lo stesso in uno (in Eins). Pone un qualcosa come lo stesso. Questo le'gein posa uno e lo stesso (legt ein und das selbe), l' o<mo'n. Tale le'gein è o<mologein~: lasciar-stare-dinnanzi un qualcosa come stesso, raccolto nella medesimezza (im Selben) del suo star-dinnanzi" (147).
A conclusione delle sue analisi, H. propone una traduzione esplicitata del frammento di Eraclito:
"Non me, il parlante mortale, ascoltate; ma siate attenti al posare raccogliente; se ad esso anzitutto apparterrete, in tal modo potrete anche veramente udirlo; un tale udire è nella misura in cui accade un lasciar-stare-insieme-dinnanzi, a cui sta dinnanzi (vorliegt) l'insieme (das Gesamt), il riunente lasciar-stare, il posare raccogliente; quando si dà (geschieht) un lasciar-stare da parte del lasciar-stare-dinnanzi, accade (ereignet sich) qualcosa di ben-disposto (Geschicklieches); poiché l'autentico ben-disposto, il destino (Geschick) solo, è l'unico-uno che tutto unifica" (154).
Questa traduzione potrebbe forse lasciare perplessi, ma H. dice che anche Eraclito aveva lasciato perplessi i suoi contemporanei utilizzando parole familiari come logos nel contesto di un simile dire. " <O Lo'goV denomina quello in cui accade la presenza di ciò che è presente. La presenza di ciò che è presente si chiama, per i greci, to` e>o`n, cioè to` ein~>ai twn~ o>'ntwn; per i romani: esse entium; noi diciamo: l'essere dell'essente (das Sein des Seienden). Dall'inizio del pensiero occidentale, l'essere dell'essente si dispiega come l'unica cosa degna di essere pensata. Se pensiamo storicamente (geschichtlich) questa constatazione storiografica (historisch), arriviamo a scoprire dove riposa l'inizio del pensiero occidentale: il fatto che nell'epoca della grecità l'essere dell'essente diventa degno di essere pensato, questo fatto è l'inizio dell'Occidente, è la sorgente nascosta del suo destino. Se questo inizio non preservasse ciò-che-è-stato (das Gewesene), cioè la riunione (die Versammlung) di quello che ancora dura (des noch Währenden), l'essere dell'essente non vigerebbe ora a partire dall'essenza della tecnica moderna. In virtù di tale essenza oggi la terra intera viene trasformata e conformata sulla base dell'essere esperito alla maniera occidentale, rappresentato nella forma di verità propria della metafisica e della scienza europee" (155).
Questo balenare dell'essere come Logos, posare raccogliente viene ben presto perso. Logos è anche l'essenza del linguaggio, del Dire originario (Sage). "Il linguaggio sarebbe Dire originario. Linguaggio sarebbe: riunente lasciar-stare-dinnanzi ciò che è presente nella sua presenza" (156). I greci, che "abitavano" in questo modo di essere del linguaggio, non l'hanno mai pensato; neanche Eraclito ha pensato l'essenza del linguaggio come essenza dell'essere. Invece è proprio a partire dai greci che il linguaggio viene pensato in riferimento all'emissione dei suoni, come fwnh', e come glws~sa, lingua. Il pensare il linguaggio come espressione è giusto, ma è limitato, perché si ferma all'esterno. Il Lo'goV di Eraclito è stato un lampo che si è perso.
Per poter vedere questo lampo bisogna collocarsi nell' "uragano dell'essere" (157), mentre invece se ne ha paura.
"L'enigma ci è proposto da lungo tempo nella parola 'essere'. Per questo, 'essere' rimane solo la parola provvisoria. Badiamo a che il nostro pensiero non si limiti a correrle dietro in maniera cieca. Prendiamo in considerazione anzitutto che 'essere' significa originariamente 'esser presente'; e che 'esser presente' vuol dire pro-dursi e durare (her-vor-währen) nella disvelatezza" (157).
Moira
E' un commento al frammento di Parmenide VIII, 34-41, ma in questo breve saggio, H. prende lo spunto dal famosissimo frammento III:
to' ga`r au>to` noein~ e>sti'n te kai' ei>n~ai
"Poiché lo stesso è pensiero ed essere".
Del frammento VIII, 34-41, H. riporta la traduzione di Kranz:
"Lo stesso sono il pensare e il pensiero che è; poiché non senza l'essente in cui esso è come l'espresso (das Ausgesprochene) puoi tu trovare il pensiero. Certo nulla è e null'altro sarà al di fuori dell'essente, poiché la Moira gli ha imposto di essere un tutto e immobile. Perciò sarà un puro nome tutto ciò che i mortali, convinti che sia vero, hanno fissato: 'divenire', così come 'perire', 'essere' così come non 'essere' e 'mutare di luogo' così come 'cambiare dei colori che risplendono'" (158).
L'interpretazione secondo la quale Parmenide volesse dire che il pensiero rientra nell'ambito dell'essente è troppo grossolana. H. compie un breve excursus su alcuni autori della filosofia moderna, per la quale il rapporto fra pensiero ed essere è un problema centrale. L'affermazione di Parmenide sembra accostabile a quella di Berkeley (esse est percipi), ma mentre per quest'ultimo in primo piano è il pensiero, a cui viene rinviato l'essere, per il greco la priorità è dell'essere.
Si delineano quindi tre prospettive di interpretazione del frammento di Parmenide. La prima, secondo cui il pensiero è annoverato fra il resto degli essenti come qualcosa di fattualmente esistente. La seconda, che secondo una mentalità moderna, "nel senso della rappresentatezza (Vorgestelltheit) di oggetti come oggettità per l'io della soggettività" (162). La terza prospettiva, di tipo platonico, fa nuovamente ricadere il peso della sentenza sul pensiero: l'essere appartiene all'ambito del non sensibile.
Queste tre prospettive rischiano di non porre il problema dell'interpretazione del passo di Parmenide nell'orizzonte suo proprio, e quindi di caricarlo di problematiche ad esso estranee.
Nel frammento VIII non si parla di ei>n~ai, come nel frammento III, ma di e>o'n. L' e>o'n non significa né l'essente in sé, né l'essere per sé: "L' e>o'n, l'essente, è invece pensato nel di-spiego (Zwiefalt) di essere ed essente, ed è nominato nel suo senso di participio, senza che il concetto grammaticale intervenga già propriamente nel sapere della lingua. Al di-spiego si può alludere almeno in via indicativa attraverso le espressioni essere dell'essente' e essente nell'essere'" (163-164).
In tutto il pensiero di Parmenide è "il Medesimo" la parola enigma, perché da questa parola non è spiegato né il fondamento né il modo del rapporto fra i due diversi che sono il pensiero e l'essere.
Dopo un'esposizione sulla differenza fra il parlare e il dire (sagen), tema trattato in altre parti dell'opera e nel Cammino verso il linguaggio, H. conclude una tappa del suo cammino con queste parole: "Ora la costruzione, considerata grammaticalmente, della sentenza: to' ga`r au>to` noein e>sti'n te kai' ei>nai, si mostra in un'altra luce. La parola-enigma, to` au>to`, il Medesimo, con cui la sentenza comincia, non è più il predicato spostato in prima posizione, ma il soggetto, quello che sta alla base, ciò che regge e sostiene. Il non appariscente e>sti'n, è, significa ora: dispiega il suo essere (west), dura (währt), e ciò fa concedendo a partire da ciò-che-concede; è in quanto questo concedente che to` au>to`, il Medesimo, vige, cioè come il dispiegarsi del di-spiego nel senso del disvelamento: quello che svelando dispiega il di-spiego concede al prestare attenzione (il pensiero) di porsi sul suo cammino verso il riunente percepire la presenza di ciò che è presente (l'essere). E' la verità, in quanto questo disvelamento del di-spiego, quella che, a partire dal di-spiego, fa appartenere il pensiero all'essere. Nella parola-enigma to` au>to`, il Medesimo, tace il disvelante concedere della coappartenenza del di-spiego con il pensiero che in essa appare" (170). E' l'Aletheia, la verità, il dispiegare che "concede a ogni singola presenza la luce in cui ciò che è presente può apparire" (171).
Il disvelamento, mentre concede l'apertura-illuminazione, trattiene il pensiero nell'appartenenza al di-spiego, e rende impossibile che si dia qualcosa di presente fuori dal di-spiego. Parmenide ne dà la ragione, come spesso accade per i grandi pensatori, in una proposizione apparentemente secondaria: essa "è la proposizione di tutte le sue proposizioni" (172). Eccola: e>pei` to' ge Moir >epe'dhsen / ou>lon a>ci'nhto'n t >e>'mme'nai: "poiché la Moira gli ha imposto (all'essente) / di essere un tutto e immobile" (W. Kranz). Parmenide parla dell' e>o'n, della presenza (di ciò che è presente), del di-spiego, e mai dello "essente". Egli nomina la Moir~a, l'assegnazione (Zuteilung) che concedendo ripartisce e così dispiega il di-spiego. Essa è l'invio (Schickung), in sé raccolto e quindi dispiegante, della presenza come presenza di qualcosa di presente. Moir~a è il destino (Geschick) dell' "essere" nel senso dell' e>o'n. Essa ha liberato (entbunden) l' e>o'n aprendogli il dispiego, e così appunto lo ha legato nella totalità e nella quiete dalle quali e nelle quali avviene la presenza di ciò che è presente.
Nel destino del di-spiego, tuttavia, accade solo che la presenza giunga a risplendere e che il presente venga ad apparire. Il destino trattiene nel nascondimento il di-spiego come tale e ancor più il suo dispiegarsi. L'essenza dell' Alh'qeia rimane nascosta. La visibilità da essa concessa fa emergere la presenza della cosa presente come aspetto ( ei>doV) e come visione ( i>de'a). Di conseguenza, il rapporto in cui si percepisce la presenza di ciò che è presente si determina come un vedere ( ei>de'nai). Il sapere improntato alla visio e all'evidenza che gli è propria non possono negare la loro provenienza essenziale dal disvelamento illuminante nemmeno là dove la verità si è trasformata assumendo la forma della certezza dell'auto-coscienza. Il lumen naturale, la luce naturale, cioè, qui, l'illuminazione della ragione, presuppone già il disvelamento del di-spiego. (...)
Se si deve parlare della storia dell'essere, occorre che prima noi consideriamo che essere significa: presenza di ciò che è presente: di-spiego. Solo sulla base di una tale considerazione dell'essere potremo domandare, con la necessaria ponderazione, che cosa significhi qui "storia" (Geschichte). Essa è il destino (Geschick) del di-spiego. Essa è il disvelante dispiegante concedere la presenza illuminata-aperta nella quale le cose presenti appaiono. La storia dell'essere non è mai un susseguirsi di avvenimenti attraverso cui l'essere di per sé passa. Ancor meno essa è un oggetto che si offra a nuove possibilità di una conoscenza storiografica la quale si proporrebbe di prendere il posto del modo finora corrente di considerare la storia della metafisica, presentandosi come un sapere più adeguato" (172).
"Il dispiegarsi del di-spiego vige come la fa'siV, il dire in quanto far-apparire. Il di-spiego alberga in sé il noein~ e insieme ciò che esso pensa ( no'hma) in quanto detto. Ciò che viene percepito nel pensiero, però, è la presenza di ciò che è presente. Il dire pensante, che corrisponde al di-spiego, è il le'gein come lasciar-stare-dinnanzi la presenza. Esso si dà solo sul cammino di pensiero del pensatore chiamato dall' Alh'qeia" (173).
Ma gli uomini ("i mortali") non accolgono la chiamata del dispiegarsi del di-spiego; si fermano a ciò che immediatamente si offre loro, alla cosa presente, senza riferimento all'esser presente. Così il dire diventa un puro dire di nomi, nei quali ciò che conta è il suono e la forma immediatamente afferrabile. Si segue il mutare delle cose presenti, senza far attenzione alla Lichtung, l'illuminazione-apertura, "che viene dal dispiegarsi del di-spiego e che è la Fa'siV, il far-apparire, il modo in cui la parola dice (sagt), e non invece quello in cui i vocaboli, i nomi con il loro suono, parlano (sprechen)" (174).
"Il destino del disvelamento del di-spiego (dell' eo'>n) abbandona le cose presenti ( ta' e>o'nta) alla percezione abituale dei mortali" (174). Il di-spiego come tale e il suo dispiegarsi rimangono nascosti; nel disvelamento domina il loro nascondersi: "Eraclito lo ha pensato. Parmenide lo ha esperito senza pensarlo, nella misura in cui, udendo la chiamata dell' Alh'qeia, pensa la Moir~a dell' eo>n', il destino del di-spiego tanto in riferimento all'esser-presente quanto in riferimento alla cosa presente" (174).
Aletheia
Commento al frammento 16 di Eraclito:
to` mh` dun~o'n pote pwV a>'n tiV la'qoi;
"Come può uno nascondersi davanti a quello che mai tramonta?" (trad. Diels-Kranz).
H., che rifiuta l'interpretazione teologica data a questo passo da Clemente Alessandrino (che vi vedeva un riferimento al fatto che niente è nascosto a Dio), svolge una lunga analisi sui termini greci, e centra la sua interpretazione intorno alla Lichtung, che Vattimo traduce "lo slargo". Lichtung indica (dal verbo lichten, che è sia illuminare, sia aprire) un qualcosa di illuminato e di aperto, per esempio la radura in un bosco. Essa, per H., sta ad indicare ciò che permette il disvelamento (la verità, alétheia), l'ambito del rapportarsi di soggetto e oggetto.
"Eraclito si chiama l'Oscuro'. Ma egli è il Chiaro. Giacché dice ciò che apre-illumina, in quanto cerca di chiamare il suo risplendere (Scheinen) nel linguaggio del pensiero. L'aprente-illuminante (das Lichtende) dura in quanto apre-illumina. Questo suo aprire-illuminare, noi lo chiamiamo la 'slargo' (die Lichtung). Che cosa lo costituisca, come e dove esso accada è cosa che resta da considerare. La parola licht significa: luminoso, radioso, lucente. L'aprire-illuminare permette il risplendere (Scheinen), libera un risplendente perché esso appaia in una manifestazione (gibt Scheinendes in ein Erscheinen frei). Questa libertà (das Freie) è l'ambito della disvelatezza (Unverborgenheit). Questo ambito è dominato dal disvelare. Che cosa appartenga necessariamente a questo disvelare, se e fino a che punto il disvelamento e lo 'slargo' siano lo stesso è quanto rimane da cercare col nostro domandare" (176-177).
Il Lichten, l'illuminare-aprire non porta soltanto la luminosità, ma anche lo spazio libero (das Freie), "in cui tutto, e specialmente gli opposti, viene a risplendere" (189); esso è più che rischiarare e più che dare libero spazio a qualcosa: " è il pensoso-riunente pro-durre (Vor-bringen) nella libertà dell'aperto (ins Freie), è concedere la presenza" (189). Il frammento 16 non parla di ti', qualcosa, che potrebbe essere presente, ma di ti'V, "di qualcuno dei mortali e degli dei" (190). Gli dei e gli uomini non possono rimanere nascosti perché "il loro rapporto con lo 'slargo' non è altro che lo 'slargo' stesso, in quanto questo riunisce e rattiene gli dei e g i uomini nello 'slargo'. Lo 'slargo' non solo rischiara ciò che è presente, ma anzitutto lo riunisce e lo alberga (birgt) conducendolo nella presenza. Di che tipo è però la presenza degli dei e degli uomini? Nello 'slargo' essi non sono soltanto rischiarati (beleuchtet), ma da esso e in vista di esso illuminati (erleuchtet). Essi possono così, nel modo loro, compiere l'illuminare-aprire (portarlo nella pienezza della sua essenza) e in tal modo custodire lo 'slargo'. Dei e uomini non sono soltanto investiti da una luce, fosse pure soprasensibile, in maniera da non potersi mai nascondere, davanti ad essa, nell'oscurità. Essi sono illuminati nella loro essenza. Sono totalmente penetrati dalla luce: traspropriati (vereignet) nell'evento (Ereignis) dello 'slargo' e per questo mai nascosti, ma in-albergati (ent-borgen), e questo ancora pensato in un altro senso. Come i lontani (Entfernten) appartengono alla lontananza (die Ferne), così gli in-albergati nel senso che ora dobbiamo pensare sono affidati allo 'slargo' che li alberga, li tiene e rattiene. Essi sono, secondo la loro essenza, dis-locati nell'area velante del segreto, riuniti, appropriati al Lo'goV nell' o<mologein~ (Frammento 50)" (190).
Ma i mortali si volgono alle cose presenti, senza sospettare nulla di ciò a cui sono confidati: la presenza che fa apparire le cose presenti. Il Logos rimane loro nascosto.
OSSERVAZIONI CRITICHE
Come si sarà potuto notare, Heidegger è certamente un pensatore profondo, che opera un forte richiamo all'essenzialità del pensiero e alle questioni metafisiche centrali; è certamente efficace nel mettere in luce l'insufficenza di quello che egli chiama "pensiero calcolante" per rispondere alla domanda sul senso della realtà. Il suo modo di procedere, per continui approfondimenti su un tema, basati sull'analisi di un oggetto, o di un frammento di filosofi greci, a volte può dare l'impressione di vere e proprie "illuminazioni" metafisiche, anche grazie al sapiente uso del linguaggio, che viene maneggiato, scandagliato, e di cui vengono messe in luce valenze insospettate. H. rifiuta l'argomentare classico e si affida a questo "pensiero rammemorante" che secondo lui è in grado —ed è l'unico— di portare luce sulle questioni essenziali. Le dimostrazioni valgono sul piano ontico, qui ci muoviamo sul piano ontologico, in cui non è più valido —per H.— il principio di causalità. Bisogna notare, fra l'altro, che le analisi filologiche di H. non sempre sono esatte, e alcuni dei suoi riferimenti fondamentali (come quello di verità come dis-velamento) sono stati rifiutati proprio dal punto di vista filologico.
E' utile, per comprendere Saggi e discorsi, avere una buona conoscenza di tutto il pensiero di H., particolarmente di Essere e tempo, la sua opera principale, che è sempre presente come sfondo "metafisico" (qui nel senso di concetti filosofici fondamentali) in tutte le sue opere posteriori[1].
La tecnica
Come abbiamo visto, per H. come per vari altri filosofi (Maritain, per esempio) "l'essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico". La tecnologia non appartiene puramente e semplicemente al mondo del fattuale, ma l'organizzazione tecnologica moderna è conseguenza e origine di qualcosa di ben più ampio. L'essenza, e il rischio che comporta la tecnica, per H., è quello di concepire tutto, anche l'uomo stesso, in termini di Bestand, di fondo da sfruttare e da utilizzare, di riserva permanente; la società tecnologica tende ad ordinare tutto per fini di sfruttamento e di impiego immediato, e porta l'uomo a guardare le cose solo in questi termini, chiudendogli la possibilità di uno sguardo più "essenziale" e di una verità più primordiale: per questo H. pensa che una possibile via d'uscita debba passare attraverso il recupero e la valorizzazione della techne intesa nel senso greco: le belle arti.
Per Maritain e per altri filosofi cristiani, che come H. riconoscono l'insufficienza della tecnologia e la limitatezza epistemologica delle scienze moderne, la "salvezza" della tecnica deve venire da un'ispirazione "sovra-tecnologica". Ma non si tratta solo delle belle arti. La tecnica va riconosciuta come un'attività specificamente umana, che quindi arricchisce di intelligenza il mondo in cui viviamo. La tecnologizzazione è anche umanizzazione: non è per forza anti-umanistica. Sono gli Autori della Scuola di Francoforte, e altri di corrente hegeliano-marxista, che insistono nel vedere tutti i rapporti dell'uomo con il mondo impostati sulla base della figura hegeliana del servo-padrone. In una visione cristiana della vita —che viene giustificata da un'adeguata metafisica— l'uomo e il mondo non sono due nemici in lotta, e ogni intervento dell'uomo sul mondo non è violenza, "manipolazione" nel senso negativo del termine. L'uomo, a cui è stato affidato il creato perché lo custodisse e lo lavorasse, deve svilupparne le potenzialità, arricchirlo mentre egli stesso si arricchisce nella conoscenza delle cose e nella produzione di oggetti, manufatti, ecc. L'uomo senza il mondo non è completo. L'uomo non è un intelletto puro (del tipo descritto da Cartesio) che debba intervenire —sempre violentemente— su un mondo di estensione pura, che sono gli oggetti esistenti fuori di lui. Le cose che gli sono date sono già ricche di intelligibilità, ed è nel rapporto teoretico, ma anche poietico, dell'uomo con le cose, che egli arriva alla propria perfezione, e porta il creato a dare maggior gloria a Dio.
Certamente resta, però, la possibilità di un rapporto di sfruttamento dell'uomo nei confronti delle cose, e di un atteggiamento "calcolante" che non sa elevarsi dalla tecnica ai suoi fini, che devono essere di un altro ordine. H. si ferma alla riflessione e al pensiero meditativo, perché rifiuta l'idea di una finalità che potrebbe inserire la tecnica in un mondo superiore, in un progetto che può avere per fine il servizio agli altri uomini, ma anche la gloria di Dio, l'amore per Lui vissuto nella tecnica[2].
L'essere, la causalità.
Come ha ben dimostrato Cornelio Fabro —seguito ormai da diversi altri studiosi[3]- l'accusa che Heidegger rivolge a tutta la filosofia, da Platone a Nietzsche, di aver dimenticato l'essere se vale per gran parte dei filosofi, non è assolutamente giustificata per la metafisica di san Tommaso. Stupisce abbastanza che H. non si sia reso conto di questo, anche se è interessante notare che egli compì un ampio studio giovanile sulla dottrina delle categorie in Duns Scoto. Questo, fra l'altro, aiuta a vedere l'origine della sua concezione dell'essere, visto come la presenza di ciò che è presente; una nozione univoca, che ricorda l'haecceitas scotista. Per san Tommaso, invece, l'essere è un atto intensivo, e la nozione che ne abbiamo è una nozione analoga. Il Sein di H. è incapace di trascendere la dimensione finita e la storicità; invece per san Tommaso si può risalire dall'esse degli enti, partecipato in modo finito, all'Ipsum Esse Subsistens, a Dio, che se qualche volta è chiamato Ens da san Tommaso, viene così nominato in modo improprio, e nelle opere giovanili. Per questo stupisce che H. dica che in tutta la storia della metafisica non si è mai rivolta attenzione all'essere, e ci si è fermati all'essente.
L'analogia dell'essere è ciò che permette un discorso di teologia razionale (naturale) su Dio, ed è ciò che lega la teologia naturale con la teologia positiva, che è approfondimento del dato rivelato. E' nella concezione univoca dell'essere che va ricercato il motivo per cui H. rifiuta la possibilità di una conoscenza di Dio, e di un discorso razionale su di Lui (seppur povero e molto limitato, ma pur sempre vero). E' l'analogia dell'essere come atto che permette di applicare la categoria della causalità a Dio, una causalità che è sempre e anzitutto causalità dell'essere, e solo secondariamente causalità del fare (cfr. le già citate pagine di Gilson). Se così non fosse, non potremmo parlare di Dio, se non riducendolo a un ente fra gli altri; la teologia non potrebbe usare nozioni metafisiche e una "filosofia cristiana" sarebbe —come dice lo stesso H.— "un ferro di legno".
Essere, linguaggio, storia.
La riflessione sull'essenza del linguaggio svolge un ruolo molto importante, specialmente nell'ultimo H., come nell'ultima parte di quest'opera. L'essere si dà nel linguaggio, e una meditazione sull'essenza del linguaggio è in grado di farci volgere all'essere. Nelle ultime parti del volume cominciano ainvedersi temi che verranno sviluppati in opere successive: In cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur sprache) e Tempo ed essere (Zur Sache des Denkes, da non confondere con Essere e tempo, Sein und Zeit). E' come una risalita che H. cerca di compiere verso regioni sempre più primitive: dall'essere alla Lichtung, lo slargo illuminante-aprente che permette il darsi dello svelamento che permette il darsi del Logos, il Dire originario, e dalla Lichtung all'Ereignis, l'evento appropriante espropriante che H. dirà anteriore all'essere e più ricco di questo.
Comunque, in queste brevi osservazioni critiche è interessante notare l'assenza della dimensione di una vera libertà dell'uomo, che si trova a subire il destino-invio (Geschick) dell'essere nelle varie epoche storiche da parte dell'Ereignis. L'uomo non può che cogliere nel linguaggio dei filosofi e dei poeti le tracce dell'essere che gli sono concesse. Non è l'uomo che parla, ma è il linguaggio che parla nell'uomo. Non è questo il luogo per soffermarsi su una discussione critica di queste tesi di H. la cui infondatezza (proprio come mancanza di un fondamento razionale che le giustifichi), checché ne dica lo stesso H., apparra abbastanza evidente. E' invece possibile individuare l'origine nel pensiero di H. di queste tesi, e rimandiamo ai testi già citati. Del resto un'esperienza della libertà, e anche un'esperienza di un —sia pur limitato— dominio sul linguaggio, è propria di tutti. Il nostro intelletto vive in un orizzonte sovra-linguistico che è in grado di giudicare l'appropriatezza di una parola a descrivere un concetto, di creare parole nuove, di riconoscere l'equivalente di una parola in una lingua diversa...
Quanto all'Ereignis, qui il discorso di H. si fa troppo allusivo e indicativo per poter essere discusso in termini razionali, ma le brevi indicazioni date finora ci sembrano sufficienti per delineare una risposta.
A.F. (1985)
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[1] Cfr. il n. 14 (1986) di Cultura e libri, e particolarmente il saggio di TOMÁS ALVIRA su Essere e tempo. Può essere molto utile leggere anche l'articolo di ARMANDO FUMAGALLI su In cammino verso il linguaggio, che è un' opera molto vicina a Saggi e discorsi per temi e data di composizione.
[2] Sul problema della tecnica ci limitiamo a segnalare FRANCESCO BOTTURI, Tecnica e verità, in IDEM, Desiderio e verità, Massimo, Milano 1985, pp. 97-111, esemplare per brevità e chiarezza, e JOHN W. HANKE, La filosofia dell'arte: Maritain, l'arte e la tecnologia moderna, in AA. VV., Jacques Maritain, oggi, Vita e pensiero, Milano 1983, che svolge un parallelo fra Heidegger e Maritain sul problema della tecnica.
[3] Per quanto riguarda gli studi di CORNELIO FABRO, cfr. i capitoli dedicati a Heidegger in Dall'essere all'esistente, II ed., Morcelliana, Brescia 1965, e in Introduzione all'ateismo moderno, Studium, Roma 1969. Possono essere molto utili anche i libri di RAUL ECHAURI, più scorrevoli delle opere di Fabro, dal titolo Heidegger y la metafísica tomista, Universidad del litoral, Córdoba 1969, e El Ser en la filosofía de Heidegger, Universidad del litoral, Rosario 1964.
Fra le esposizioni della metafisica tomista, che mettono in luce come essa sia lontana dall'essenzialismo e dall'oblio dell'essere, segnaliamo ANGELO CAMPODONICO, Alla scoperta dell'essere, Jaca Book, Milano 1986, che è accessibile anche a non specialisti pur dando una visione chiara e approfondita della metafisica di san Tommaso.