GADAMER, Hans Georg
La dialettica di Hegel
Marietti, Torino 1973.
1. Premessa
La presente opera[1] è una raccolta di saggi che ha come filo conduttore una unitaria interpretazione della dialettica hegeliana nonché l'intento di fondare sulla speculazione di Hegel l'ermeneutica filosofica. Il riferimento ad Heidegger, presente in vari saggi, completa criticamente il quadro delle fonti della filosofia di Gadamer.
L'edizione italiana, su cui sarà svolta questa relazione, presenta la seguente articolazione:
1. Hegel e la dialettica antica: saggio dedicato a Theodor Litt per il suo ottantesimo compleanno; già pubblicato in Hegel-Studien, I, Bonn 1961, pp. 173-199.
2. Il mondo invertito: conferenza presentata al Congresso hegeliano di Royamont; già pubblicata in Hegel-Studien, Beiheft 3, pp. 135-164.
3. La dialettica dell'autocoscienza: saggio inedito. Non si trova nell'edizione tedesca ove al suo posto vi è il seguente saggio: Hegel e il romanticismo di Heidelberg.
4 . L'idea della logica hegeliana: saggio inedito. Rappresenta il resoconto di una conferenza tenuta a Friburgo nel novembre 1970.
5. Hegel e Heidegger: saggio inedito. E' un lavoro scritto nello stesso periodo del precedente e reso pubblico in varie conferenze tenute in Italia presso diverse Università e sedi del Goethe-Institut.
6. Brano di una lettera di M. Heidegger a H.G. Gadamer, scritta in data 2 dicembre 1971. In questa missiva Heidegger fa alcune osservazione in merito ai punti nodali della Hegels Dialektik di Gadamer. E' importante per la riserva espressa su alcune interpretazioni hegeliane di Gadamer.
7. Brano di una lettera di M. Heidegger a H.G. Gadamer, scritta in data 29 febbraio 1972. Riporta un giudizio sintetico sull'ermeneutica filosofica.
8. La questione della dialettica in Hegel, Heidegger, Gadamer. Nota critica di Riccardo Dottori.
2. Gadamer e la dialettica hegeliana
Il punto focale del modo in cui l'ermeneutica gadameriana si rapporta alla dialettica di Hegel si può sintetizzare in questa formula che definisce allo stesso tempo un indirizzo di pensiero e un compito: «La dialettica deve riprendersi nell'ermeneutica»[2]. Con queste parole Gadamer intende porsi in continuità rispetto alla filosofia dialettica; l'ermeneutica costituirebbe quasi un inveramento della dialettica.
Vediamo, in primo luogo, come Gadamer intende la dialettica del filosofo di Stoccarda. La dialettica è in Hegel "un procedere immanente da una determinazione all'altra che, secondo quanto esso stesso esige, avviene senza un impiego tetico dell'auto movimento del concetto, ed espone l'immanente consequenziarietà del pensiero in un processo continuo, senza passaggi tracciati dall'esterno"[3]. E' importante qui mettere in risalto come la peculiarità della speculazione hegeliana sia rinvenuta nel procedere immanente; ciò significa che il pensiero deve svilupparsi per una intrinseca necessità e consequenziarietà senza che nulla venga posto dall'esterno; il pensare è dunque un auto movimento. Secondo Gadamer, Hegel rinviene un modello del suo metodo nello stile socratico di condurre il discorso dove attraverso il dialogo il pensare si svolge con "immanente plasticità"[4]. Hegel "ha riconosciuto senza dubbio giustamente che lo scialbo ruolo che rivestono i personaggi del dialogo socratico va a vantaggio dell'immanente consequenziarietà del procedimento del pensiero. Egli loda i partner socratici come eroi veramente plastici, che sono pronti a rinunciare alla compiacenza ed arbitrarietà delle loro inventive che disturberebbero il processo del pensiero"[5]. Questa interpretazione del dialogo socratico-platonico che porterà Gadamer a vedere in questo modulo un paradigma anche per il procedimento ermeneutico va intesa alla luce della dialettica hegeliana. I personaggi del dialogo socratico sono strumenti del farsi del pensiero, unità in divenire che permette agli interlocutori di essere nel dialogo; è il dialogo che fa gli interlocutori e non gli interlocutori che fanno il dialogo. A questo punto ci si potrebbe chiedere perché questo pensiero che è auto movimento abbisogna di qualcosa che sia altro dal processo stesso; la risposta a questo quesito non rientra nel quadro speculativo di Hegel e di Gadamer: la relazione costitutiva che lega gli interlocutori è il dialogo così come la relazione costitutiva che lega le determinazioni è il pensare.
Per evidenziare le differenze tra la dialettica antica e quella hegeliana Gadamer cita il seguente brano della Phänomenologie des Geistes: «Il genere di studio dell'età antica si diversifica da quello dell'età moderna per il fatto che quello era la formazione della coscienza naturale. Questa, intraprendendo dei tentativi in ogni parte della sua esistenza e filosofando su tutto ciò che avveniva, si elevò ad una universalità intimamente concretata. Nell'età moderna invece l'individuo trova la forma astratta già preparata; lo sforzo di afferrarla ed appropriarsene e più l'immediato erompere dall'interno e l'ininterrotta produzione dell'universale che il procedere di esso dalla concretezza e molteplicità dell'esserci. Perciò ora il lavoro non consiste tanto nel purificare l'individuo dal suo stato immediato e sensibile, di renderlo sostanza pensata o pensante, quanto piuttosto nell'opposto, cioè nell'attuare e nell'animare l'universale col togliere i pensieri fissi e determinati»[6]. Il pensiero antico avrebbe, dunque, purificato l'individuo dal modo immediato e sensibile del conoscere e l'avrebbe elevato alla universalità del pensiero. Platone è il primo a sviluppare la dialettica speculativa perché "ha svelato l'apparenza della certezza sensibile e dell'opinione che si basa su di essa, e ha fondato il pensiero totalmente su se stesso, che esso potesse ambire di conoscere la verità dell'essere senza l'ingerenza dell'intuizione sensibile nella pura universalità del pensare"[7]. Con queste caratteristiche il pensiero antico appare più vicino alla fluidità dell'elemento speculativo rispetto al pensiero moderno in quanto i suoi concetti non sono ancora staccati dal molteplice concreto che essi devono comprendere. Grazie a queste caratteristiche esso si approssima all'idea di universale concreto che costituisce il punto di arrivo della filosofia hegeliana. Ogni determinazione concettuale ha senso soltanto nell'intero delle determinazioni, nell'unità del "concetto". Nel pensiero moderno, invece, l'universale è stato visto al di fuori delle relazioni costitutive con l'intero degli universali, come pensiero fisso e determinato; quindi compito della filosofia dopo il darsi della posizione moderna è, secondo Hegel, quello di "animare" l'universale riportandolo dall'astrattezza in cui si trova alla concretezza che è data dall'intero del processo del pensare nell'unità dello spirito.
D'altra parte, anche la speculazione antica è ferma a metà strada poiché l'aver compreso le relazioni costitutive che legano le determinazioni non è ancora aver compiuto il passo decisivo. Queste "debbono essere elevate all'universalità dell'autocoscienza" dove "viene pensato «tutto ciò che si da» nella coscienza naturale, linguistica"[8]. L'unità del concetto è, quindi, data dall'autocoscienza che pensa l'intero. Nella coscienza filosofica antica, invece, "lo spirito è ancora completamente immerso nella sostanza —detto in termini hegeliani: che la sostanza è soltanto a sé il concetto— che esso non si conosce affatto nel suo essere-per-sé, come soggettività, e perciò non è ancora conscio di trovare se stesso nel comprendere ciò che si dà "[9]. La dialettica hegeliana vuole essere, ad un tempo, soggettiva e oggettiva: dialettica non solo del pensare ma anche del pensato, del concetto stesso. Inoltre "come tale la dialettica del concetto dovrà compiere lo sviluppo verso il concetto del concetto, verso il concetto dello spirito stesso"[10]. Sulla base di queste considerazioni Gadamer ritiene unilaterali le interpretazioni che ritengono la dialettica di Hegel puramente soggettiva quanto quelle che la ritengono puramente oggettiva. Essa non è "un traballante sistema soggettivo di ragionamenti che vanno e che vengono, ed a cui manca il contenuto"[11] né è il tentativo di voler comprendere la totalità del mondo in un universale sistema di categorie. Contro questa seconda riduzione, condivisa da Trendelenburg e da Dilthey, Gadamer ribatte che ciò che determina il progresso dialettico non sono le relazioni del concetto come tali, ma il fatto che in ognuna di queste determinazioni si pensa il sé dell'autocoscienza, sé che ognuna di queste determinazioni pretende di esprimere e che perviene alla completa esposizione soltanto alla fine, nell'«Idea assoluta»[12]. L'auto movimento del concetto che Hegel cerca di seguire nella sua logica si basa allora interamente nell'assoluta mediazione di coscienza e oggetto che è il tema centrale della fenomenologia dello Spirito. Questa, infatti, "prepara l'elemento del sapere, che non è affatto un sapere della totalità del mondo. Infatti esso non è un sapere antico, ma piuttosto, insieme al sapere del saputo, è sempre al tempo stesso un sapere del sapere. Questo è il senso della filosofia trascendentale a cui Hegel esplicitamente tien fermo. Solo perché l'oggetto saputo non può venir mai separato dal soggetto che sa (il che significa che esso ha la sua verità nell'autocoscienza del sapere assoluto), vi è l'automovimento del concetto"[13]. L'elemento del sapere, punto terminale della Fenomenologia, è fondamentalmente sapere del sapere; in tal senso nella dialettica della fenomenologia il movimento è "esso stesso il movimento del togliere la differenza tra sapere e verità, alla fine del quale soltanto vien fuori la sua assoluta mediazione, la figura del sapere assoluto"[14]. Tuttavia anche in questa dialettica è presupposto come motore del processo l'elemento del sapere, cioè il pensare se stesso nel pensare tutte le determinazioni. Pertanto la Fenomenologia non è una introduzione alla scienza filosofica perché l'elemento del sapere, cioè ciò che fa il sapere tale, è presente in essa fin dal primo momento. "Il cammino dell'elevazione della coscienza comune a coscienza filosofica, il togliere la differenza della coscienza, cioè la scissione di coscienza ed oggetto, è piuttosto l'oggetto della coscienza fenomenologica. Essa stessa si trova già in questo punto di vista della scienza, in cui questa differenza è superata. Non può darsi una introduzione che preceda la scienza. Il pensare inizia con se stesso, cioè con la decisione di pensare[15].
Il compito della Fenomenologia non è solo quello di far divenire autocoscienza la coscienza ma di realizzare la autocoscienza come ragione; in questo contesto per «ragione» s'intende l'unità di pensare e di essere. "Nel concetto della ragione è implicito il fatto che l'essere è altro dal pensiero, che l'opposizione dell'apparenza e dell'intelletto non è una vera opposizione"[16]. Hegel, a proposito ha delle parole molto chiare: «Per essa (l'autocoscienza), allorché si concepisce così, è come se soltanto ora il mondo le si apra, prima non lo capisce, lo appetisce e lo lavora, si ritira da esso, si ritira in sé, ecc.»[17].
La verità della coscienza non sta, dunque, nel fatto che tutto è «mio» come contenuto della mia coscienza; Hegel a proposito afferma: "autocoscienza è però divenuta soltanto per sé, non ancora come unità con la coscienza in quanto tale"[18]. Il punto di arrivo della Fenomenologia è l'unione dialettica di soggetto e oggetto. Il sapere non si distingue più dal suo contenuto ed è venuta meno la distinzione tra opinare ed opinato[19]. L'Io è diventato spirito. Alla fine della dialettica fenomenologica lo spirito appare, lasciando dietro di sé le sue apparizioni come coscienza e autocoscienza[20]; Gadamer così riassume il cammino della Fenomenologia: "nella Fenomenologia dello Spirito questo procedere della scienza si compie come un andare e venire tra ciò che la nostra coscienza opina e ciò che è realmente contenuto in quello che essa dice. Cosi abbiamo sempre la contraddizione tra ciò che vogliamo dire e ciò che abbiamo realmente detto, e dobbiamo di continuo abbandonare ciò che non è sufficientemente adeguato ed accingerci ad un nuovo tentativo di dire ciò che opiniamo. Questo è il progresso metodico attraverso cui la Fenomenologia giunge alla sua meta, e cioè alla comprensione che il sapere esiste solo là ove ciò che opiniamo e ciò che è non si diffeziano più in nulla"[21].
Come esempio della identità nella differenza tra l'Io e la cosa Gadamer riporta ciò che si dà nell'opera d'arte. "L'opera d'arte non è più una cosa che, intendendola, si ponga in un insieme di relazioni, bensì essa è, come noi diciamo , un «enunciato» (Aussage), cioè essa stessa ci impone come deve essere intesa"[22]. Questo stesso imporsi dell'oggetto è presupposto da quella scienza che è la filosofia. "Perciò nella prima parte fondamentale di essa, e cioè nella Logica, che è la scienza delle possibilità dell'essere, abbiamo a che fare con il puro contenuto dei pensieri, con i pensieri che sono completamente privi di ogni opinione soggettiva del pensante. Con ciò non viene inteso niente di mistico. Il sapere dell'arte, della religione e della filosofia è piuttosto un sapere a tal punto comune a ogni pensante, che non ha più senso distinguere una coscienza individuale da un'altra. Queste figure della certezza soggettiva, presenti in enunciati rispetto a cui nessun opinare può più porre delle riserve, sono le più alte figure dello spirito. Poiché l'universalità della ragione consiste nel fatto che essa è libera da ogni condizione soggettiva"[23].
Gadamer vede nel progetto hegeliano della Logica una certa continuità rispetto alla filosofia greca del Logos-Nous, cioè rispetto all'ardimento di «considerare i puri pensieri in sé»[24]. La meta del progetto è lo svolgimento delle idee. Hegel usa a tal proposito una espressione di nuovo conio che svolge nella logica un ruolo di primo piano: «das Logische», l'«elemento logico». Con ciò Hegel intende l'insieme delle idee come viene svolto dalla filosofia platonica nella dialettica[25]. "In essa l'impulso che era all'origine del movimento era il dover dare ragione di ogni pensiero. La dottrina delle idee di Platone voleva condurre a compimento la principale esigenza del Socrate platonico, il «dare ragione» (lógon didónai), con la dottrina delle idee. La dottrina hegeliana ora si propone di portare a compimento questa esigenza, di dare la chiara ragione della legittimità di ogni pensiero tramite lo svolgimento di tutti i pensieri. (...) Lo svolgimento dei puri concetti della «scienza», in cui lo spirito ha acquistato il puro elemento della sua esistenza, il concetto, determina ora il sistema della scienza. Essa espone l'insieme delle possibilità del pensiero come la necessità in cui la determinatezza del concetto si determina progressivamente, in un senso tale rispetto a cui l'infinito dialogo platonico dell'anima con se stessa è un modello soltanto formale"[26].
Compito e cimento della Logica è, dunque, 1 'esposizione dell'«elemento logico», l'intiero sviluppo delle possibili determinazioni del pensare attraverso un processo necessario. Gadamer si sofferma molto sulla vexata quaestio del cominciamento. Con queste parole egli fissa i termini del problema: «Il testo con cui comincia effettivamente la Logica, consiste solo di poche righe, che pongono però i problemi essenziali della logica di Hegel: il cominciamento con l'idea di essere, la sua identità con il nulla, e la sintesi delle due idee contrapposte dell'essere e del nulla, che è il divenire. Questa è la determinazione del contenuto di ciò con cui, secondo Hegel, deve avvenire l'inizio della scienza"[27].
La soluzione che Gadamer propone è la seguente: «Nell'essere come nel nulla non viene pensato certamente nulla di determinato. Ciò che vi è, è il vuoto intuire o pensare, cioè nessun intuire o pensare reale. Ma anche se non vi è niente altro che vuoto intuire o pensare, vi è in verità il movimento del determinarsi, cioè il divenire»[28]. Come conferma Gadamer riporta una citazione di Hegel: «E' una grande comprensione quella che si ha quando si è riconosciuto che essere e non-essere sono astrazioni senza verità, è che il primo vero è solo il divenire»[29]. A questo punto della sua analisi sulla Logica hegeliana Gadamer introduce la problematica del linguaggio. Egli ritiene che Hegel per fondare il tentativo di sviluppare una logica trascendentale onnicomprensiva si richiami alla logica naturale trovata nell'istinto logico del linguaggio. "Con l'espressione «istinto» qui usata, Hegel intende, com'è chiaro, quella tendenza inconscia, e non di meno priva di errore e causalmente costituita, verso uno scopo che spesso ci sorprende nel comportamento animale. (...) Con questo discorso sull'istinto logico del linguaggio si intendono allora la direzione e l'oggetto della tendenza del pensare verso l'«elemento logico» (das Logische)"[30]. Nel linguaggio, e non soltanto nelle sue forme grammaticali-sintattiche ma anche nei suoi nomi si riflette sempre di più la tendenza obiettivante della ragione, nello stesso senso in cui essa costituisce l'essenza del Logos greco. Ciò comporta che quanto viene pensato e detto si rende evidente al punto che si può addirittura indicarlo. Secondo Gadamer anche Aristotele avrebbe riconosciuto al linguaggio una capacità oggettivante universale. Così è proprio la capacità di «rendere evidente» (delûn) che contraddistingue il lógos apofantikós rispetto a tutte le altre maniere di parlare. Aristotele avrebbe in tal modo fondato la logica degli enunciati.
Hegel ha radicalizzato la posizione aristotelica riducendo al concetto, nella Logica, la struttura logica della dialettica stessa. "Ora le vere e proprie determinazioni logiche che costituiscono i rapporti reciproci del pensato, come identità, diversità, relazione e rapporto, ecc., e che Platone (Soph. 253) paragonò alle vocali, sono propriamente efficienti in quanto sono come avvolte nel linguaggio. Nella grammatica si riflettono dunque le strutture logiche"[31].
Ma è in un senso ancora più forte che Gadamer parla di istinto logico del linguaggio. Il linguaggio, infatti, tende verso la logica perché le categorie naturalmente efficienti nel parlare, vengono come tali pensate propriamente nella logica. Pertanto l'«elemento logico» che è in funzione nel linguaggio animandolo si rivela e giunge all'autotrasparenza nella logica. Gadamer aggiunge:«Nell'idea della logica il linguaggio trova allora il proprio compimento, in quanto il pensare attraversa tutte le determinazioni del pensiero che si trovano in esso stesso e che si rendono efficienti nella logica naturale del linguaggio, e le riconduce al pensare del concetto»[32]. Ma a questo punto cominciano dei seri problemi per la logica di Hegel a giudizio di Gadamer. La logica tradizionale era puramente formale e, quindi, rimaneva identica in ogni diverso uso che se ne facesse nelle scienze; la logica di Hegel invece sulla scia della analitica trascendentale di Kant non può essere un sapere puramente formale; essa pretende dar corpo all'intera possibilità del pensabile. Però deve fare i conti con la "diversità della costituzione umana del linguaggio". La variegata natura del linguaggio comporta "un margine altamente differenziato di anticipazioni logiche, che si articolano nei più diversi schemi dell'accesso linguistico al mondo (sprachlicher Weltzugang). L'«istinto logico», che è certamente insito nel linguaggio, non può esaurire perciò quel che già è prefigurato nella diversità delle lingue, tanto da potersi elevare, come logica, al suo concetto"[33].
Ciò significa che a tal punto il linguaggio condiziona il pensare a causa dei diversi accessi linguistici al mondo che il sapere assoluto e l'accesso al concetto come pericoresi di soggetto e oggetto non è possibile. Ecco la spiegazione di Gadamer: «Anche per la parola non vi è un inizio dal nulla, e un concetto non si lascia determinare come concetto senza che sia già in gioco la parola, in quanto uso di essa in tutta la pluralità dei suoi significati. (...) I concetti sono appunto quello che sono nella loro funzione, e questa funzione viene sostenuta continuamente nella logica naturale del linguaggio. Da un punto di vista rigoroso dobbiamo ammettere che quando parliamo non mettiamo soltanto in uso delle parole. Usare delle parole non vuol dire usare arbitrariamente uno strumento dato. Le parole ci prescrivono esse stesse come devono essere adoperate. Ciò viene chiamato appunto il "linguaggio corrente" che non dipende da noi, ma da cui noi dipendiamo, perché non possiamo andare contro di esso»[34].
Secondo Gadamer anche Hegel si sarebbe reso conto di questa dipendenza dal linguaggio; in tal senso afferma: «Hegel si rende certamente conto di ciò quando parla della "logica naturale". Anche il concetto non è uno strumento del nostro pensare, bensì è il nostro pensare che deve seguirlo e che trova nella logica naturale del linguaggio la sua prefigurazione»[35]. L'essenza del linguaggio non è quella di essere manifestazione del pensiero. Anzi "il pensiero acquista piuttosto esso stesso il suo esserci determinato soltanto con il suo essere compreso nella parola. Così il movimento del linguaggio mostra una doppia direzione: esso mira all'oggettività del pensiero, ma proviene anche da esso come revoca di ogni oggettivazione nella potenza occultante della parola. Hegel, intraprendendo il compito di svelare l'"elemento logico" come ciò che c'è di più intimo nel linguaggio, e di esporlo in tutta la sua articolazione dialettica, ebbe ragione di vedere in ciò il tentativo di ripensare i pensieri divini come essi erano prima della creazione —un essere prima dell'essere. Ma l'essere, che è all'inizio di questo riflettere e che nella piena oggettivazione del suo contenuto termina nel concetto, presuppone già sempre il linguaggio in cui il pensare ha il proprio luogo"[36].
Il linguaggio, pertanto, è presupposto al pensare ed è anche presupposto a quella introduzione metodica al pensare che è costituita dalla Fenomenologia dello Spirito. Il linguaggio stesso come presupposto "resta collegato alla totale oggettivazione del Sé e si compie come sapere assoluto, ed è il limite insormontabile di esso che diviene manifesto nell'esperienza del linguaggio. Ciò che fa sì che il linguaggio sia parlante non è l'essere come l'astratta immediatezza del concetto che si autodetermina —è un essere che si dovrebbe descrivere piuttosto a partire da ciò che Heidegger chiama Lichtung. La Lichtung contiene però al tempo stesso il disvelare e il nascondere"[37]. Gadamer, dunque, riconosce che il linguaggio è in relazione a quel processo dell'Io che si fa Sé, cioè del soggetto che si scopre come oggetto non alienandosi come soggetto. Però questo farsi oggetto del soggetto che allo stesso tempo è un farsi soggetto dell'oggetto non è un processo compiuto, rimane sempre una regione dell'«elemento logico» che non è esplorata e che costituisce un'ulteriorità rispetto al sapere. Così il progetto hegeliano di un sapere assoluto, di una totale e compiuta autotrasparenza risulta impossibile. Gadamer così espone questa conclusione: «L'idea hegeliana della logica rimanda infatti indirettamente oltre se stessa, in quanto Hegel nell'espressione das Logische, che egli predilige, riconosce l'impossibilità reale di "compiere" il concetto. L'"elemento logico" non è l'insieme o la totalità di tutte le determinazioni del pensiero, come il continuo geometrico rispetto a tutte le posizioni dei punti»[38].
Hegel chiama 1' «elemento logico» anche con il nome di «speculativo»; in particolare egli definisce la «proposizione speculativa» come una proposizione dai caratteri peculiari rispetto alla proposizione-enunciato; mentre questa infatti attribuisce un predicato ad un soggetto quella pretende di essere un andare in sé del pensiero. "La proposizione speculativa si trova al centro, tra la tautologia da una parte e l'autotogliersi nella determinazione infinita del suo senso dall'altra, ed in ciò consiste la massima attualità di Hegel: la proposizione speculativa non è tanto enunciato quanto linguaggio"[39]. Nella proposizione speculativa è presente il pensare stesso come processo; allo stesso modo "nella formula linguistica —non tanto del giudizio, quanto della sentenza e dell'imprecazione— c'è l'«essere detto» stesso e non soltanto ciò che si dice"[40]. Secondo Gadamer sia la proposizione speculativa così delineata che la parola lirica e l'essere dell'opera d'arte in generale hanno una sussistenza propria. "Nella sussistenza della parola poetica e dell'opera d'arte si trova un enunciato che «sta» in se stesso; e come la proposizione speculativa esige l'esposizione dialettica cosi l'opera d'arte esige l'interpretazione, per quanto essa non possa essere esaurita pienamente da nessuna interpretazione"[41]. Infine Gadamer, sulla scorta della teoresi heideggeriana, tira le seguenti conclusioni: "La logica del concetto che svolge se stesso non rimanda a sua volta oltre di sé, e cioè alla "logica naturale" del linguaggio? Il sé del concetto, in cui il puro pensare si comprende, non è alla fine nulla di rivelantesi, ma, in tutto ciò che è, altrettanto attivo quanto il linguaggio. (...) Il medio della riflessione, in cui si muove il progresso della logica, è però a sua volta non avvolto nel linguaggio (come la rispettiva determinazione concettuale), ma come un tutto, come l'«elemento logico», rapportato retrospettivamente alla chiarezza del linguaggio)"[42].
Il linguaggio deve essere visto come una totalità e non come significativo nella singolarità dei suoi elementi. Così: «come la parola che uno dice è collegata al "continuo" dell'intendimento interumano in base al quale essa si determina al punto che può addirittura essere revocata, così la proposizione speculativa rimanda ad un tutto della verità, senza essere questo tutto o senza dirlo. Questo tutto che non è Hegel lo pensa come la riflessione in sé attraverso cui esso si mostra come la verità del concetto»[43]. Proprio nella via verso il concetto si nasconde la immanente aporia che secondo Gadamer caratterizza il pensare hegeliano: "Se tuttavia nella tendenza verso l'«elemento logico» il concetto è pensato come la compiuta determinazione dell'indeterminato ed in esso si compie soltanto un lato del linguaggio, la sua tendenza al «logico», per un altro verso, tuttavia, l'essere in sé della riflessione mantiene rispetto allo «stare in sé» della parola e dell'opera d'arte in cui è «occultata» la verità un costante rapporto aporetico e rinvia così a quel concetto di «verità» che Heidegger cerca di pensare come l'«evento dell'essere» e che dà proprio spazio, come ad ogni conoscenza, così ad ogni movimento della riflessione"[44]. Hegel ha sviluppato, secondo Gadamer, una trascendentale logica dell'oggettività però la sua opera non è compiuta. "Ma nella linguisticità di ogni pensare resta l'esigenza di una direzione contraria per il pensiero, che ritrasforma il concetto nella parola vincolante. Quanto più radicalmente il pensiero oggettivante riflette su sé stesso e sviluppa l'esperienza della dialettica, tanto più chiaramente rimanda a ciò che esso non è"[45]. In ultima analisi, come anche egli riconosce nella sua opera di maggiore respiro[46], la parola e l'opera d'arte per Gadamer hanno una struttura analoga al gioco; benché infatti la parola non sia di per sé astraibile dal tessuto connettivo della comunicazione umana, essa ha un essere per sé, una sussistenza, cioè un essere che non dipende dal soggetto ma da cui il soggetto dipende. L'analogia del gioco sta in questo: una volta costruito il gioco è il gioco che gioca e i giocatori sono giocati, devono stare al gioco; essi sono giocatori fintanto che sono misurati dalla struttura del gioco[47].
Analogamente la parola e l'opera d'arte hanno una sostanzialità propria, un essere che non è posto dal soggetto. Questi, infatti, coglie qualcosa della parola, ma essa conserva un sostrato inesauribile di senso che rimane occulto. E' proprio questa natura bifronte della parola, oggettualità che non è posta dal soggetto, a permettere a Gadamer un superamento del progetto hegeliano del concetto, cioè del farsi oggetto del soggetto che è allo stesso tempo un farsi soggetto dell'oggetto. Esiste sempre uno spazio inesauribile di nascondimento nella parola e nell'opera d'arte, un "fondo oscuro" che sfugge continuamente all'autotrasparenza e che l'interpretazione deve far venire alla luce senza mai poterlo interamente esaurire. La parola di cui Gadamer parla non è quella posta nella struttura enunciativa del giudizio ove secondo il pensatore tedesco la parola è come incarcerata dalla univocità propria del logos ma quella che si esprime nella sentenza o nel linguaggio lirico. Essa sembra possedere quell'essere «assolutamente» che caratterizza le forme dello spirito assoluto di Hegel (arte, religione e filosofia) dove i soggetti come individui non aggiungono nulla di proprio, dove non c'è spazio per l'opinione[48].
Pero l'assolutezza della parola significa anche l'inesauribilità del fondo non rivelato (non trasparente, non manifesto al soggetto) della parola. La parola è nella sua vita che è il linguaggio; essa deve essere interpretata, dove l'interpretazione significa la trasparenza di questa alterità al soggetto; però mai si arriva ad esaurire la parola, il suo fondo che non esce dal nascondimento. Così lo svolgimento del das Logische non è mai ultimato. Non c'è compimento. Ciò significa tuttavia che ogni interpretazione è portare alla autotrasparenza la parola, è giungere al la Lichtung, cioè allo svelamento che però vive nella relazione al nascondimento. Così tutte le interpretazioni sono valide, perché esplicitano il fondo della parola. Quindi non c'è criterio o valore per giudicare una interpretazione. In tal luce si può intendere l'asserto di Gadamer: «l'essere che può venire compreso è linguaggio" (...) Venire ad espressione nel linguaggio non significa acquistare una seconda esistenza. Il modo in cui qualcosa si presenta appartiene invece al suo essere proprio. In tutto ciò che è linguaggio, si incontra dunque una verità speculativa; c'è una differenza tra essere e presentarsi, che tuttavia non è una vera differenza»[49]. Nella parola, dunque, si raggiunge il punto di vista assoluto dove si ha la pericoresi tra soggetto e oggetto che si tolgono come polarità opposte; ivi secondo Gadamer si è tolta ogni rigidezza e allo stesso tempo non si ha il compimento perché la parola non è mai pienamente svolta.
Heidegger ha criticato l'ermeneutica filosofica dicendo che essa rappresenta un Rückfall in das Bewusstsein, cioè una ricaduta nella coscienza in quanto concepisce il processo riflessivo della conoscenza come il dover ricondurre il saper al luogo originario della verità intesa come oggettività linguistica[50]. Invece Heidegger afferma: "Questo esperire l'Alétheia è un passo indietro alla "cosa più antica dell'antico" (...) il ritorno nell'"altro inizio", cioè nello stesso e medesimo, unico inizio del pensare occidentale, ma in questo inizio pensato in altra maniera"[51]. Il giudizio di Heidegger sull'ermeneutica filosofica di Gadamer emerge anche da queste affermazioni: «Perché il pensare resta necessariamente nell'angustia del linguaggio che non riesce a trovare le parole? Presumibilmente perché il dire del pensiero deve dire l'Essere (piuttosto che la differenza rispetto all'essente), ed il rispettivo linguaggio assegnatoci dal destino al contrario, dimentico di sé, parla dell'essente ed esprime l'essente. La parola è accordata al dire dell'essente. Ma essa d'altra parte può parlare così perché parla dell'apertura dell'Essere (Lichtung), e parlando addirittura nomina questo. Tuttavia, come sono enigmatici i nomi di questo nominare. Come va l'ermeneutica di questi nomi?»[52].
Heidegger vuole reagire all'ontologia eidetica mostrando come l'essere e la verità non siano un oggetto che viene catturato nella "presenza" da un soggetto ed esaurito da questo. L'essere si mostra, appare, si svela però allo stesso tempo si occulta; ciò che si svela è dialetticamente legato a ciò che si occulta in tal maniera che non c'è svelamento senza occultamento. L'essere, come essere che appare e quindi come essere determinato e in quanto tale presente come ente limitato in una eideticità coglibile dal pensiero, è circondato dal nulla, cioè dall'assenza di determinazioni, da un essere non oggettivo e non fisso in determinazioni. Con questa operazione Heidegger crede di essere uscito dalla coscienza e di rapportarsi originariamente all'essere. L'essere sarebbe così quel fondo inoggettivato a partire dal quale si origina ogni conoscenza. Questo fondo, però, non è conoscibile tramite il logos; si esige un linguaggio diverso che permetta il rapporto con questo principio; Gadamer afferma a proposito: «Per Heidegger, che non volge l'attenzione al linguaggio come enunciazione, ma alla temporalità della Presenza stessa che a noi si rivolge, il dire è sempre un tenersi in ascolto di-ciò-che-ha-da-essere-detto e un raccogliersi veramente di fronte a ciò che-non-è-detto»[53]. Gadamer sembra interpretare questo "ciò-che-non-è-detto" non come ciò che non è dicibile ma come ciò che non è ancora detto e che non sarà mai pienamente detto. Ma il senso heideggeriano non sembra andare in questa direzione; per questo Heidegger afferma: «La alétheia stessa e come tale non è affatto esperita e fondata, (...) essa non giunge al "Wesen" (come verbo: al presentarsi), come 1'"Ereignis" "l'evento" (...)»[54]. Gadamer pertanto ha "ridotto" l'ambiguità presente nel pensiero di Heidegger attraverso il ricorso alla dialettica hegeliana che ha cercato di riformare mostrando come il das Logische non sia pienamente risolto in autotrasparenza.
Infine ci sembra che l'ermeneutica filosofica contenga una contraddizione interna; l'ermeneutica pone infatti l'assoluta dipendenza di ogni espressione dello spirito umano da un linguaggio storicamente determinato. Tuttavia questo ambito —la determinazione storica di ogni discorso ed espressione— non è storicamente determinata perché ha una validità universale e a priori; tutto è ermeneutica, eccetto la stessa teoria ermeneutica che rimane al di sopra di ogni storicizzabilità. L'ermeneutica come teoria non è storicizzabile; non si potrà dare un'epoca in cui il pensiero o l'espressione umana non sia determinato da una interpretazione. Questo presupposto a-storico, universale e necessario, non soggetto ad interpretazione, dell'ermeneutica è in contraddizione con la presunta universalità della teoria stessa. D'altra parte la teoria ermeneutica coerentemente applicata porta all'idolatria dell'interpretazione", in quanto è impossibile stabilire un criterio di valutazione delle interpretazioni: tale criterio infatti sarebbe o metalinguistico o pre-linguistico e inoltre irrigidirebbe in una oggettività ininterpretabile l'essere[55].
Naturalmente questa valutazione dell'ermeneutica filosofica non vuole misconoscere l'esigenza ermeneutica. Soltanto si vuol evitare che tale riconoscimento finisca per legittimare una ontologia della parola in cui l'essere venga ridotto a linguaggio. A tal proposito bisogna anche tener in conto che tra i pensatori che hanno ispirato l'ermeneutica filosofica va annoverato Nietzsche[56]. Questi nella Seconda considerazione inattuale, sull'utilità e il danno della storia per la vita elabora una concezione della storia che mira a liberare l'uomo da una finalità preordinata. A tal fine egli pone la sfera degli istinti come la base di ogni comportamento e legittima questa tesi con una metafisica della volontà priva di scopi[57]. Tra i presupposti che stanno alla base di questa concezione c'è la affermazione che non esistono fatti reali ma soltanto interpretazioni (Gerade Tatsache gibt es nicht, nur Interpretationen)[58]. Pertanto, secondo Nietzsche, non si dà neanche una natura umana oggettiva; l'uomo si costruisce il passato secondo le esigenze della vita. E' proprio la vita ad indurre l'uomo a riscrivere continuamente la storia proprio perché non si dà una realtà umana che stia prima di ogni interpretazione.
D'altra parte ogni riscrittura è provvisoria come la "prima natura" (sc. quella che precedeva la riscrittura): «anche tale prima natura è stata una volta, quando che sia, una seconda natura, e (...) ogni seconda natura che vinca diventa una prima natura»[59].
In tale posizione di pensiero, tuttavia si nasconde un nucleo fortemente problematico. Nietzsche, da una parte, ritiene che la vita sia la norma delle rielaborazioni della storia; egli così crede di poter sottrarre la vita alla storia e di porla come potenza astorica, come potenza immediata. Tuttavia, d'altra parte, egli afferma che la vita non può essere considerata come il testo originario. Se, dunque, la vita è accessibile solo sempre nelle sue mediazioni allora ogni interpretazione non è interpretazione di un testo, di un qualcosa di previo ad una interpretazione, ma è soltanto un riscrivere precedenti interpretazioni, cioè un interpretare interpretazioni date e consolidate. Ciò significa che il processo interpretativo è un recedere all'infinito. Non esistono, pertanto, interpretazioni giuste: tutte sono soltanto relativamente giuste[60]. Ciò porta con sé la distruzione dell'ermeneutica.
L'esigenza ermeneutica può essere soddisfatta soltanto da una dottrina della conoscenza che allo stesso tempo riconosca che la conoscenza non è un'operazione tetica (sc. non è il soggetto che pone l'oggetto) e che essa è limitata in quanto conoscenza di un quid, di un oggetto. Nessun atto conoscitivo umano esaurisce l'essere[61] e, pertanto, la conoscenza rimane sempre aperta e può essere ulteriormente arricchita in estensione e profondità.
G.B. (1988)
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[1] H. G. GADAMER, La dialettica di Hegel, tr. it. di Riccardo Dottori e Carlo Angioini, Marietti Torino 1973, pp. 178; tit. orig. Hegels Dialektik, J.C.B. Mohr, Tübingen 1971. D'ora in poi si citerà l'edizione italiana con la sigla GGDH, seguita dal numero arabo relativo al capitolo corrispondente secondo l'indice riportato sotto.
[2] GGDH 4 p. 126.
[3] GGDH 1 p. 9-10.
[4] GGDH 1 p. 10.
[5] GGDH 1 p. 12.
[6] Phänomenologie des Geistes. Ed. di Hoffmeister, Hamburg 1952, p. 30.
[7] GGDH 1 p. 13.
[8] GGDH 1 p. 14.
[9] GGDH 1 p. 14.
[10] GGDH 1 p. 14.
[11] HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, 81.
[12] Cfr. GGDH 1 p. 16.
[13] GGDH 1 p. 17.
[14] GGDH 1 p. 17.
[15] (GGDH 1, p.17. In questo contesto emerge come aporetico un punto essenziale: se il pensare è automovimento, che senso ha parlare d'inizio del pensare, di pensare che inizia con se stesso? Inoltre la «decisione di pensare» non significa già far iniziare il pensiero da qualcosa che non è pensiero ma piuttosto decisione? Il pensare comincierebbe con un atto ateoretico e aspeculativo. Il problema dell'inizio del pensare nasconde una delle più grosse difficolta della filosofia dialettica: l'essere costretti a porre un momento di innesco nel processo del pensiero assoluto. Che cos'è il pensiero prima di cominciare? In ogni caso esso sarebbe non-pensiero; ma come si passa dal non-pensiero al pensiero? In fondo la difficoltà nasce dal voler porre come assoluto il pensiero umano che non può non essere processo. D'altra parte un pensiero che ammette successione, anzi che vive del suo recuperare nella autocoscienza il suo proprio «elemento logico», cioè il suo contenuto oggettuale inconsapevole non può essere assoluto perché dipende dal processo stesso; in altri termini l'assoluto che è risultato del suo stesso farsi non è assoluto; ciò presuppone infatti che l'assoluto da non-assoluto si faccia assoluto, ma come può il processo redimere se stesso e dar luogo a qualcosa che sia il suo compimento? Vedremo in seguito come un altra aporia insolubile della dialettica sia proprio legata al punto terminale.
[16] GGDH 2 p. 73.
[17] Phänomenologie cit. p. 176.
[18] Ibidem.
[19] Cfr. GGDH 4 p. 107.
[20] Cfr. GGDH 4 p. 98. Lo spirito in Hegel va inteso come relazione costitutiva tra soggetto ed oggetto; come sostanza che si fa soggetto e come soggetto che si scopre sostanza; esso è una realtà dinamica ed unitaria come riflessività del soggetto e dell'oggetto.
[21] GGDH 4 p. 107.
[22] GGDH 4 p. 107.
[23] GGDH 4 p. 108.
[24] Espressione di Hegel citata da Gadamer in GGDH 4 p. 99.
[25] Cfr. GGDH 4 p. 99.
[26] GGDH 4 pp. 99-100.
[27] GGDH 4 p. 110.
[28] GGDH 4 p. 115.
[29] G W F HEGEL, Wissenschaft der Logik in Werke, ed. Freunde des Verewigten, Berlin 1832 vol 13, p 334 Anche Heidegger è convinto che nel cominciamento il divenire del pensiero sia già presupposto, cfr. GGDH, 6 p 148 n 1 «La questione come avviene il movimento nella Logica è superflua, perché il movimento è già in essa. Cfr. La logica del concetto, ed. Lasson, p. 486: "il metodo è perciò la forza semplicemente infinita" (la vis primitiva activa, ma pensata come in-finita)» Nonostante ciò queste argomentazioni di Gadamer e di Heidegger non sono persuasive, esse colgono nel segno quando rilevano che il movimento del pensare è tale fin dal primo momento; però esse non riescono a dimostrare, a fondare la necessità di questo punto di partenza; la vis primitiva activa è un mero postulato che non puo essere giustificato dal processo stesso in quanto in tal modo si cadrebbe in un circolo vizioso perché anche il processo è fondato, legittimato nel cominciamento; non può, pertanto, il cominciamento fondare ciò che lo deve fondare. Il cominciamento si rivela una pura posizione, una decisione ateoretica Si tratta di uno sviluppo del tentativo di Fichte di sviluppare la universale portata del metodo filosofico trascendentale kantiano. «Nella Dottrina della scienza (...) Fichte vedeva nella spontaneità dell'autocoscienza la vera e propria azione originaria, la Tathandlung, fatto-azione, come egli la chiamò. Questa azione autonoma dell'autocoscienza, il suo proprio determinarsi, che col concetto di autonomia era stato definito da Kant come l'essenza della ragion pratica, doveva essere ora la sorgente di ogni verità del sapere umano: l'Io è "questa autocoscienza immediata" (HEGEL, Logica, I, ed. Lasson, Leipzig 1923, p. 61). Hegel osserva però che con ciò viene soltanto "richiesta immediatamente" un'idea dell'Io puro come autocoscienza. Un tale postulato soggettivo non garantisce alcuna sicura comprensione di ciò che qui è il sé, cioè l'Io in senso trascendentale» GGDH 4 p. 97; anche Hegel, tuttavia non riesce ad emanciparsi da questa origine nell'autonomia della ragion pratica dove la soggettività si pone come principio. Gadamer crede che la fondazione della scienza della Logica vada vista nell'ultimo momento della Fenomenologia: «L'inizio della scienza è basato dunque sul risultato delle esperienze della coscienza, che inizia con la certezza sensibile e si completa nelle figurazioni dello spirito che Hegel chiama assolute: quelle del'arte, della religione e della filosofia. Esse sono assolute poiché nessuna coscienza opinante va oltre ciò che in esse si mostra in piena affermazione. Soltanto qui comincia la scienza, poiché qui non si pensa nient'altro che i pensieri, cioè il puro concetto nella sua mera determinatezza (Phän. d. Geistes, ed. Hoffmeister, p. 562). Il sapere assoluto è allora il risultato di una purificazione, nel senso che si è rivelato come la verità dell concetto trascendentale dell'Io di Fichte, di essere cioè non soltanto soggetto, ma ragione e spirito, cioè tutto il reale.
Questa è la vera e propria fondazione (Grundlegung) che Hegel compie, attraverso cui restaura il sapere assoluto come la verità della metafisica, come forse l'ha pensata Tommaso D'Aquino nello intellectus agens, e rende possibile una logica universale (che svolge i pensieri di Dio prima della creazione)» GGDH 4 p. 99. A parte il riferimento storico a San Tommaso alquanto impreciso (San Tommaso non identifica l'intelletto agente con l'intelletto divino e assoluto) in questa interpretazione bisogna rilevare che anche se il sapere assoluto hegeliano si fonda sulla dialettica fenomenologica esso rimane alquanto aporetico; infatti come può un sapere assoluto, un Nous originario aver bisogno di purificazione e passare attraverso l'alienazione della coscienza e della autocoscienza per cogliersi come spirito, come pericoresi di soggettività e oggettività? Come può esso stesso passare dal nonsapere al sapere? In ogni caso il movimento che porta al sapere non è esso stesso sapere: quindi da una forza cieca si passa all'autotrasparenza. All'origine dunque c'è una dynamis pura incomprensibile.
[30] GGDH 4, p. 116.
[31] GGDH 4, p. 117.
[32] GGDH 4, p. 117.
[33] GGDH 4, p. 118. Cfr. H. G. GADAMER, Wahrheit und Methode; tr. it. di G. Vattimo, Milano 1972, p.352: «Essere storico significa non poter mai risolversi totalmente in autotrasparenza. Ogni sapere di se sorge in una datita storica, che possiamo chiamare, con Hegel, sostanza, in quanto costituisce la base di ogni riflessione e comportamento del soggetto, e quindi definisce e circoscrive anche ogni possibilità da parte del soggetto, di capire un dato storico trasmesso nella sua alterità. Il compito dell'ermeneutica filosofica si può, quindi, su questa base, definire come quello di risalire l'itinerario della fenomenologia dello Spirito hegeliana fino a mettere in luce in ogni soggettività la sostanzialità che la determina».
[34] GGDH 4, pp. 118-119. In questo passo risulta chiara la posizione gnoseologica di Gadamer, presupposto per comprendere la radice dell'ermeneutica filosofica. Una concezione funzionalista del concetto ("i concetti sono appunto ciò che sono soltanto nella loro funzione") è alla base di questo indirizzo di pensiero. Se il concetto è pura funzione del soggetto e se questa funzione è condizionata dal linguaggio è chiaro che è il linguaggio a determinare il pensiero. In tal senso l'ermeneutica appare come uno sviluppo della trascendentalità kantiana dove alle categorie come condizioni di possibilità della conoscenza sono state sostituite le strutture linguistiche. D'altra parte il linguaggio come dimensione trascendentale è una totalità plurale (in quanto si danno più linguaggi) e storicizzata (un linguaggio dato dipende da una tradizione). Ciò significa che la trascendentalità che da Hegel era stata sviluppata in modo da pervenire ad un sapere assoluto adesso con Gadamer assume un volto finitizzato e storicizzato. Il linguaggio è un pressupposto della nostra struttura conoscitiva, e un quid che dobbiamo sviluppare ma a cui siamo costituzionalmente legati.
[35] GGDH 4, p. 119.
[36] GGDH 4, p. 120.
[37] GGDH 4, p. 120. Lichtung è una parola intraducibile in italiano; essa è usata per indicare la chiarezza delle parti del bosco in cui mancano o sono piuttosto rade le piante; la Lichtung in quanto apertura svela e al tempo stesso nasconde ciò che sta al di là dell'apertura. Con questa espressione Gadamer vuol mettere in chiaro come il dire del linguaggio che condiziona il pensare è una apertura oggettivante in quanto esprime un contenuto determinato (quando si parla si parla di "qualcosa") pero non esaurisce la dicibilità del linguaggio in quanto il linguaggio sempre contiene un ulteriore spettro di significati dicibili e in quanto esistono svariati linguaggi secondo i diversi accessi linguistici al mondo di cui gia si è parlato. Il linguaggio svela l'essere ma mai lo svela pienamente esaurendone la svelabilità: ciò ci sembra il significato dello svelare nascondendo incluso nel semantema Lichtung ripreso da Gadamer come eco heideggeriana.
[38] GGDH 4, p. 121.
[39] GGDH 4, p. 121.
[40] GGDH 4, p. 121.
[41] GGDH 4, p. 121.
[42] GGDH 4, p. 125.
[43] GGDH 4, p. 122
[44] GGDH 4, 122. E' proprio la sussistenza, lo «stare in sé» della parola che giustifica la originarietà della prospettiva ermeneutica.
[45] GGDH 4, p. 126.
[46] Cfr. Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, p. 107.
[47] Cfr. H. G. GADAMER, Die Aktualität des Schönen. Kunst als Spiel, Symbol und Fest, Reclam, Stuttgart 1977, traduzione. italiana. a cura di R. Dottori Marietti, Genova 1986, p. 25: «Il gioco ci appare (...) come quell'automovimento che tramite il proprio movimento non tende a uno scopo o a una meta, ma solo al movimento come movimento, che sembra, per così dire, un fenomeno di autorappresentazione del vivente».
[48] W. Schulz mette bene in chiaro la analogia tra Gadamer ed Hegel rispetto al modo di rapportarsi al giudizio: «L'impostazione dell'ermeneutica moderna è affine alla concezione sviluppata da Hegel nell'analisi delle proposizioni speculative per quanto riguarda il fatto che entrambe negano l'idea che sta alla base del giudizio, secondo il quale il soggetto della proposizione di cui si deve discutere e il soggetto pensante che parla del contenuto della proposizione sono essenzialmente distinti e separati l'uno dall'altro. In contrapposizone a questo punto di vista viene accentuata, non solo da Hegel ma anche dall'ermeneutica moderna, l'unità di ciò che si deve discutere e di colui che ne discute. La differenza si mostra qui nel fatto che quest'unità si configura in modi diversi. Per Hegel si tratta dell'unità di quell'unico spirito che in quanto spirito del mondo si sviluppa attraverso gli spiriti dei popoli; si tratta cosi dunque in fondo di un monologo dello spirito con se stesso. Il pensiero moderno non sostituisce più al movimento un soggetto assoluto; la soggettività di volta in volta attuale, ossia il singolo ricercatore, deve colloquiare con le forme del passato che sono separate da lui nel tempo. Si tratta dunque in generale di trovare una unità connettiva in contrapposizione all'estraneità che è data da questa separazione» (W. SCHULZ, Philosophie in der veränderten Welt. Vierter Teil: Vergeschichtlichung. Pfullingen 1972; tr. it. 1987, pp. 94-95).
[49] Wahrheit und Methode, tr. it. cit., p. 542.
[50] Cfr. GGDH 8, p. 165.
[51] GGDH 6, p. 149.
[52] GGDH 7, p. 151.
[53] GGDH 5, p. 146.
[54] GGDH 7, p. 149.
[55] Cfr. Wahrheit und Methode; tr. it. cit., p. 509: «L'esperienza linguistica del mondo è "assoluta". Essa oltrepassa la relatività di ogni posizione d'essere, giacché abbraccia ogni in sé, quali che siano i rapporti (relatività) in cui esso si mostra. La linguisticità della nostra esperienza del mondo precede tutto ciò che è riconosciuto ed enunciato come essente». Trattasi, dunque, di una ontologia che concepisce la verità "non come qualcosa di statico e oggettivo, ma di vivente, e soprattutto di coinvolgente le strutture esistenziali del soggetto e l'Essere. La concezione dell'essere come Ereignis, e quindi come incontro vitale, esperenziale, interamente coinvolgente, e non puramente astratto, capace quindi di trasforamre profondamente la coscienza illuminandola con la sua presenza, è un'istanza che difficilmente si potrà contestare all'ermeneutica esistenziale senza prima capirne le ragioni, che l'hanno condotta finora a riscoprire in modo primario il ruolo stesso della filosofia" (G. MURA, Saggio introduttivo: La teoria Ermeneutica di Emilio Betti in E. BETTI, L'ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, Città Nuova Roma 1987, p. 39.). Bisogna riconoscere ciononostante che se l'ermeneutica filosofica nasce come intento di superare da una parte la pretesa universalità delle scienze positive come sapere e dall'altra l'ontologia eidetica moderna essa tuttavia compromette la stessa possibilità di un sapere sull'essere proprio perché l'Ereignis sfuggendo ad ogni ipostaticità e ad ogni consistenza è un flusso perenne di puntualità non correlate, alla mercé della Sinngebung, dell "'attribuzione di significato" da parte di un soggetto; non ha più senso in questo scenario parlare né di principi universali né di valori vincolanti per la coscienza.
[56] Cfr. G. SANSONETTI, Il pensiero di Gadamer, Morcelliana Brescia 1988, p. 15.
[57] Cfr. F. NIETZSCHE, Werke, a cura di K. Schlechta, München 1956, vol. I, pp. 225 e ss. e W. SCHULZ, op. cit., vol. IV, p. 150.
[58] Cfr. F. NIETZSCHE, op. cit., p. 229.
[59] Ivi p. 229.
[60] Cfr. W. SCHULZ, op. cit., vol. IV, p. 153.
[61] Cfr. J. H. NICOLAS, Synthèse dogmatique. De la Trinité à la Trinité. Fribourg 1985, pp. 196-197: «(...) car le réel n'est pas une "donnée brute", et il se livre différemment selon l'angle sous lequel il est abordé. L'analyse des expressions de la connaissance en fonction d'un tel coefficient relève de l'herméneutique, et elle est indispensable. Mais il reste que, si l'intelligence est foncièrement ordonnée à l'être, les divers "univers intellectuels" ont un fond commun, auquel peut se réduire leur molteplicité. Il serait facile de montrer, d'ailleurs, que cela seul rend possible le dialogue entre les intelligences malgré la diversité des milieux de culture; cela seul, aussi, rend possible l''herméneutique elle-meme: si celle ci, en effet, était liée à l'univers intellectuel de l'herméneute, en sa différence, l'entreprise même d'interpréter les expressions d'un univers intellectuel différent serait vaine».