BOCKLE, Franz

I concetti fondamentali della Morale

8ª Ed. Queriniana, Brescia 1981, 137 pp.

Il Volume vuole essere una revisione sistematica dei punti centrali della morale fondamentale, come si dice nella presentazione. Dopo una introduzione sul concetto di teologia morale e sul suo rapporto con altre discipline, l'autore ci offre quattro capitoli: il primo, intitolato "L'immagine cristiana dell'uomo", è un tentativo di presentare le tracce fondamentali di una antropologia biblica; il secondo si occupa dell'essenza e delle fonti della moralità (suddiviso in due parti sull'agire umano e sull'agire morale); il terzo è dedicato alle norme della moralità (anche questo in due parti, sulla legge morale o norma oggettiva per riconoscere la moralità, e sulla coscienza o norma soggettiva per conoscere la moralità). Il quarto e ultimo tratta del peccatore, del peccato e dei peccati.

L'autore mostra di conoscere sia San Tommaso sia i manuali classici, dai quali prende a volte definizioni e impostazioni vere e salde. Non di rado, l'esposizione è chiara e le soluzioni convincenti. Premesso questo, si deve però aggiungere che altre volte le soluzioni sembrano errate e fanno pensare ad una insufficiente assimilazione sia della dottrina del Concilio Vaticano II, sia del pensiero di San Tommaso, oltre che a una mancanza del necessario spirito critico per portare avanti una ricerca aperta al pensiero moderno che non diventi una semplice resa.

Nell'insieme l'opera risulta ambigua. Un indizio —per me significativo— è che l'autore pone come esempio di dubbio teorico di coscienza "l'odierna discussione sulla liceità di certi metodi per il controllo delle nascite " (p. 92). Questo significa ignorare l'Humanae vitae (che a tale discussione volle autoritativamente porre fine) e anche la ratifica del Sinodo dei Vescovi del 1980 che proprio per risolvere i possibili dubbi nati dagli interventi di alcune conferenze episcopali, lascia chiaro che si tratta di una questione fuori della discussione dei teologi. Inoltre, la Esort. apost. Familiaris consortio confermò nuovamente questa dottrina (cfr. nn. 31-32). Dopo tutto questo, è inaccettabile presentare la condanna dell'uso della "pillola" come un precetto dubbio, in legittima discussione fra gli autori. Ciò, inoltre, secondo le regole sui dubbi di coscienza formulate dall'autore (pp. 92-97), porterebbe alla conseguenza che —su questo punto— i coniugi possono decidere liberamente cosa fare, malgrado l'Humanae vitae e la Familiaris consortio (vedi pp. 92-96). E questo è ancora più inaccettabile.

Nelle pagine 22-24 si fornisce un concetto di natura e persona, ripreso poi a pp. 45-47, che porta —malgrado gli sforzi dell'autore— al relativismo morale, e alla diminuzione dell'ambito della libertà umana. Dopo aver parlato della somiglianza dell'uomo a Dio, fondata sulla natura spirituale dell'uomo, e che comprende anche il suo essere corporale, l'autore insiste sul'idea che l'uomo "in quanto immagine di Dio ha essenzialmente un carattere storico " (p. 22). Questo carattere storico consiste, per l'autore, nel divenire dell'uomo, "che non è mai un semplice divenire dell'interno delle proprie possibilità, ma un maturare nell'ambiente e nel momento storico (...). In tale modo il singolo uomo deve modellare la propria somiglianza con Dio all'interno di una storia del mondo che è effettivamente storia sacra di Dio " (p. 22)[1]. D'altronde, l'uomo —così marcato dalla storicità— viene individuato al di là della natura. "Nell'uomo l'individuazione non avviene solo dal basso, data dalla materia e dal grado di vita (come nelle piante e negli animali), ma viene data anche immediatamente dall'alto, tramite lo spirito. Nell'uomo la proprietà essenziale dell'individualità non è la diversità che si mostra nella fisionomia, ma la distinzione posta in modo evidente dall'atto di creazione. Il singolo uomo è chiamato all'esistenza in maniera unica e immutabile mediante la parola di Dio. L'etica deve quindi considerare l'uomo non solo a partire dall'aspetto generale, ma deve soprattutto cercar di comprenderlo nella propria singolarità, nel suo valore proprio non derivante dalla natura, ma fondato nella singolare creazione e vocazione da parte di Dio (di ciò tratteremo più a lungo a proposito della coscienza)" (p. 23-24). Quindi, nell'uomo si darebbe qualcosa di personale, che proviene dall'atto creatore, e che non è proprio della natura umana, o almeno sfugge alle norme comuni della natura umana. Mentre per San Tommaso la persona e l'individuo di natura razionale, per Böckle persona significa qualcosa di diverso dalla natura, attraverso la quale l'uomo s'individua.

Tutto ciò si collega, come l'autore esplicitamente riconosce, alla concezione di Metz e di Rahner, sul rapporto anima-corpo. Il corpo come "medium costitutivo dell'anima, fornisce all'anima la propria realtà in quanto tale concreto, singolo uomo di questa terra. Ma nel suo corpo l'uomo è collegato anche al cosmo intero. La corporeità non solo è il medium constitutivo della persona, è anche il medium di altri influssi estranei". E finisce il brano con la seguente citazione di Metz: " E giacché il medium, in cui io stesso sono presente, è anche il risultato e campo di espressione di energie a me ostili, la mia manifestazione corporea è il diventar visibile di me stesso; ma questa manifestazione ha il carattere dell'ambiguità " (p. 45). E continua: " In queste considerazioni J. B. Metz segue interamente il suo maestro Karl Rahner. Rahner distingue l'uomo in quanto "persona" e in quanto "natura". Con persona si intende l'uomo in quanto può disporre della libertà su se stesso (...). Rahner chiama natura la corporeità vivificata insieme ai rapporti e alle connessioni col mondo circondante. In corrispondenza alla distinzione tra persona e natura, Rahner distingue nella decisione umana un doppio strato: anzitutto l'atto originario e intelligibile di libertà dell'uomo in quanto tale e poi il suo necessario incarnarsi negli atti umani mediante la natura (...). Ciò che la persona compie nella dimensione della natura è espressione e rivelazione della decisione della libertà nella materialità spazio-temporale dell'uomo, nella sua "visibilità"; ed essendo distinto dalla libertà, tale atto è insieme nascondimento di questa libertà originaria in quanto tale" (p. 46).

Ci troviamo quindi di fronte al dualismo (caratteristico di quella parte del pensiero moderno che si è ispirata a Cartesio) tra mondo della natura e mondo dello spirito, mondo della necessità e della libertà, corpo-anima, legge e libertà. Mentre nel pensiero attuale d'ispirazione agostiniano-tomista, che raccoglie la tradizione teologica dei Padri, anima e corpo formano una unità sostanziale e armonica, e tutto lo squilibrio dipende dal peccato originale, che la grazia può sanare, in Böckle come in Rahner la disarmonia è costitutiva. "Nell'identico spazio della natura in cui operano la persona originaria e ciò che ad essa è estraneo, sorge una interferenza tra azione e passione, tra compiuto e imposto, tra proprio ed estraneo. Quel che è proprio è nascosto da ciò che è estraneo e ciò che è estraneo si presenta come proprietà della persona. Nella propria azione percettibile l'uomo è "se stesso" e insieme non è "se stesso". L'atto conserva quindi nella propria struttura "una fondamentale e ineliminabile equivocabilità". Ciò corrisponde "alla oscura situazione che è data da sopportare alla creatura" (Rahner)" (p. 47).

Inoltre, nel pensiero cristiano rappresentato dalla linea perenne dei Padri, portata al culmine da Tommaso —in tutto sempre conforme al Magistero e oggi ogni volta più diffusa—, la legge divina è sempre una guida e un bene per la libertà, e il corpo e le passioni di per sè un aiuto per vivere la libertà (infatti sebbene l'armonia originaria sia stata ferita dal peccato originale, rimane sempre sanabile attraverso la grazia). Invece, nel pensiero di Rahner, come in quello del suo maestro Heidegger e dei teologi che li hanno seguiti, la disarmonia è costitutiva: appartiene alla contrapposizione tra mondo della natura —retto dalla necessità— e mondo dello spirito, caratterizzato dalla totalità di autonomia o autoposizione. Ciò confermano queste parole di Böckle: "A motivo di questa distinzione tra persona e natura la nostra natura spirituale e corporale rassomiglia a una zona di interferenza tra l'"io" e il "mondo". Mondo significa qui tutto ciò che non deriva dall'autocoscienza spirituale della persona, quindi l'ambiente circostante, l'ereditarietà, certe caratteristiche derivanti dal carattere e dal sesso, malattie, decisioni di altri soggetti. Tutto ciò può influire sulla nostra azione e spesso anche comprometterla; tuttavia la fondamentale libertà di decisione non è per niente eliminata a causa di tali influssi" (p. 47).

Dicevamo che questa impostazione sul rapporto natura-persona, portava con sè una diminuzione dell'ambito della libertà, e un relativismo morale. Vediamo adesso alcuni esempi. Il primo riguarda il modo in cui l'autore espone la distinzione tra peccato mortale e veniale (pp. 121-123).

La Chiesa parla dei seguenti elementi o componenti della colpa grave o mortale: violazione di un comandamento in materia grave, fatto con piena avvertenza e pieno consenso. Quindi, ogni volta che viene commesso un atto grave per la materia (adulterio, ingiuria o calunnia su materia grave, ingiustizia su beni o valori di certa importanza,immotivata mancanza di assistenza alla Messa nei giorni di precetto, ecc.), se risulta che non esiste nessuna delle cause che tolgono l'uso della libertà (errore incolpelvole o coercizione, e certi estremi del timore ingiusto o delle passioni incolpevolmente disordinate), c'e una colpa grave.

Questi elementi della colpa mortale (materia grave, piena coscienza e pieno consenso), diventano invece nelle mani dell'autore, segni imprecisi o realtà difficili da giudicare.

L'autore comincia esaminando il contenuto dell'atto: "E' di decisiva importanza sapere soltanto cosa significa, quando si dice di una determinata azione che essa è oggettivamente peccato grave. Con questa affermazione può e deve essere inteso soltanto, che, in base a tutto ciò che dicevamo sul rapporto tra peccato e peccati (la teoria dell'opzione fondamentale), questo atto richiede dall'uomo una decisione fondamentale nella sua disponibilità verso Dio. Già il citato esempio di distinzione tra omicidio e oltraggio ci mostra l'intera problematica di un tale giudizio della teologia morale. La Bibbia ci dice che già cade nella morte eterna anche chi soltanto ingiuria il proprio fratello. Ciò dovrebbe renderci critici e prudenti. E' possibile giudicare rettamente e con chiarezza un'azione solo nel rapporto con l'opzione fondamentale dell'uomo. L'uomo non pone mai dei singoli atti con un'intenzione neutra. L'intero uomo vive di un atteggiamento fondamentale che, o è orientato verso Dio, o è distolto da lui. Questo atteggiamento fondamentale, che determina ed informa tutti gli atti, difficilmente è riflesso negli uomini. L'azione esteriore, come può essere giudicata oggettivamente è solo un debole indizio. In tal modo questo o quell'atteggiamento di freddezza che in sè potrebbe essere insignificante, potrebbe viceversa essere un segno di egoismo perfetto. Questo egoismo, che esteriormente non si manifesta in alcuna azione riprovevole, considerandolo profondamente potrebbe costituire ciò che noi teologi chiamiamo peccato mortale. D'altra parte una mancanza esteriormente grave potrebbe anche essere espressione di un amore falsamente inteso che in sè non deve affatto significare alcun allontanamento da Dio. Con ciò non si può nè si deve portare appoggio ad alcun relativismo" (p. 122). Ma di fatto, con ciò si dà luogo a un totale relativismo. La nostra libertà si esercita attraverso le nostre azioni normali, buone o cattive; ed è attraverso esse che ci poniamo in rapporto con Dio e con gli altri. La distinzione tra una libertà fondamentale (spesso inconscia), e una libertà periferica, che è quella di cui viviamo in pratica, costituisce un mero gioco di idee, che non risponde alla realtà. Il Magistero, nella dichiarazione Persona humana ha voluto dare una esplicita risposta a questa teoria: "Secondo la dottrina della Chiesa, il peccato mortale che si oppone a Dio non consiste nella sola resistenza formale e diretta al precetto della carità; si dà anche in quella opposizione all'amore autentico che si trova entro ogni trasgressione deliberata, in materia grave, di qualsiasi delle leggi morali" (n. 10 §4). Inoltre, come si è ben messo in rilievo, la scelta fondamentale cattiva —per il proprio egoismo, contro il proprio essere, contro Dio— è di regola un controsenso; l'uomo non sceglie mai il male per il male, ma fa il male per l'amore disordinato di un bene, il che succede in ogni trasgressione deliberata di una legge divina in materia grave[2].

Se il giudizio sul contenuto dell'atto viene così esposto dall'autore, quello nella decisione personale rimane ancora più nel mistero. "Ancor più difficile è stabilire i criteri per riconoscere la libera decisione (...). Vale come indicazione fondamentale il fatto che le nostre decisioni si attuano per mezzo della nostra corporalità e stanno per conseguenza in una ambiguità di natura. Ciò che è proprio della persona si mischia con ciò che le è estraneo, senza che noi possiamo avere al riguardo una chiarezza riflessa. Ciò mostra come su tale punto gli abituali criteri di conoscenza e di volontà non siano sufficienti" (p. 122). Finisce dicendo che dobbiamo lasciare il giudizio a Dio (evidente) e che questo corrisponde anche alla dottrina della Chiesa sul fatto che non possiamo avere mai una certezza riflessa della nostra salvezza; certo, ma questo non significa che non possiamo sapere con certezza se abbiamo compiuto —o no— un atto in materia grave liberamente, e quindi se siamo in stato di colpa mortale e dobbiamo confessarci.

Il relativismo morale compare anche nel modo in cui Böckle tratta la legge naturale. Inizia affermando che la legge naturale è, secondo San Tommaso, il giudizio che la nostra intelligenza —tenuto conto delle nostre tendenze e inclinazioni— formula sulla realtà del proprio essere e in generale degli altri esseri, e, quindi, sull'obbligo di agire conformemente all'ordine stabilito da Dio nella creazione. In seguito, passa a dire —e in ciò l'autore non segue più l'Aquinate— che il contenuto di tali obblighi rimane su esigenze molto generiche. Perché a questo punto "sorgono oggi parecchie questioni. Cosa significa essere uomo? Questo essere è definibile una volta per tutte? Non è l'uomo stesso un'essenza che si sviluppa storicamente e che muta profondamente? Anche la conoscenza di noi stessi non è forse un processo storico? Nella comprensione attuale di un periodo della storia dello spirito non si ha forse più una prospettiva della verità che la verità in sè? Questi interrogativi stanno oggi al centro della discussione e sono quindi legittimi" (p. 63).

La risposta a questi interrogativi, presa di nuovo in prestito dalla filosofia trascendentale, risulta confusa come ragionamento, ma chiara nei risultati: "L'essenza dell'uomo realmente permanente e obbligante può essere enucleata solo mediante una deduzione trascendentale che deve essere distinta dal campo semplicemente generale e fattuale. In questo senso possiamo dire che appartengono alla sua essenza inalienabile e necessaria solo quelle strutture ontologiche che l'uomo stesso ancora afferma (realizzandole) anche quando le nega espressamente. Così si presenta in certo modo la sua spiritualità, il suo essere in relazione agli altri uomini e il suo rapporto con Dio" (p. 64). Aggiunge che, siccome da tali strutture si possono dedurre alcune esigenze immediate, si può anche parlare di esigenze della moralità immutabili e valide al di sopra del tempo. Tale sono secondo San Tommaso, afferma l'autore, i primi principi che si presentano all'uomo con intima evidenza (a dire il vero, per San Tommaso sono immutabili anche le conclusioni —sia immediate che remote—, benché gli uomini le possano dimenticare per un certo tempo —le più remote anche in modo continuo—, con o senza colpa, secondo i casi). Ma l'autore va ancora oltre, dicendo: "La storicità essenziale dell'uomo ci mostra che le strutture fondamentali sono il nucleo di un uomo che muta e si sviluppa anche nella sua conoscenza. Se accogliamo la storicità dell'uomo, allora non ci è più sufficiente tramandare in una fissa formulazione le comprensioni una volta acquisite, e applicarle alle mutevoli circostanze. La totalità dell'uomo che trasforma se stesso e la sua visione del reale secondo una prospettiva richiedono dall'uomo una sempre rinnovata comprensione del significato del suo essere nel mondo della realtà concreta" (p. 66). Da questo nascono le differenze fra i moralisti cattolici, poiché alcuni rimangono attaccati "alle concezioni passate e alle loro formulazioni, specialmente quando determinate formulazioni sono state introdotte anche nelle dichiarazioni del magistero ecclesiastico, ad es. nella dottrina degli scopi del matrimonio" (p. 66). Ma esempi di disaccordo ne potrebbero aggiungere tanti: liceità o no dell'aborto terapeutico, dei rapporti prematrimoniali, del divorzio in certe condizioni, dell'omosessualità, dell'odio di classe, della eutanasia, della droga, ecc. Si è detto indovinatamente, al riguardo, che così arriviamo all'assurdo di "alcuni teologi che invocano l'illusione di conservarsi credenti di buona lega, soltanto trattenuti in normali dispute teologiche con altri credenti, quando la logica dell'effettivo disaccordo mostra che solo una delle parti può continuare a credere nel Dio in cui la Chiesa Romana ha sempre creduto, per circa duemila anni, come l'unico Dio. L'altra parte adora un idolo di propria fabbricazione (...). Penso che sarebbe assurdo pretendere che ambedue le parti parlino dello stesso Essere Divino, quando il dibattito versa, per es. sulla liceità o no dell'aborto volontario"[3]: come dire della contraccezione, o dell'eutanasia, ecc.

Il relativismo riappare nuovamente nell'approccio dell'autore allo studio della coscienza, o norma soggettiva della moralità, in comparazione con la legge o norma oggettiva. Comincia così: "Abbiamo studiato la norma oggettiva dell'agire morale. Sebbene la legge della natura sia creata e la legge della grazia sia infusa nell'anima, la legge rimane tuttavia un appello rivolto all'uomo dal "di fuori"; è oggettiva, cioè sta di fronte alla persona morale (objectum viene da objicere= porre di fronte, e quindi significa ciò che sta di fronte). All'appello della legge corrisponde nell'uomo una "capacità" che accoglie l'appello e conduce l'uomo verso il concreto agire morale. La coscienza è una norma che è soggettiva nel senso che appartiene interamente al soggetto. Mentre la norma oggettiva ci informa sul carattere morale di un'azione in generale (moralità oggettiva), la coscienza determina la moralità di un'azione personale di una determinata persona (moralità soggettiva). Se ad esempio qualcuno in un caso concreto non ritiene peccato una bugia necessaria, che viceversa è oggettivamente immorale, tale bugia non sarebbe oggettivamente peccato. Parleremo allora di peccato materiale, non di peccato formale. Ciò illumina il grande significato della coscienza" (p. 85).

Qui ci sono parecchi punti da chiarire. Innanzitutto, il fatto che una persona abbia la coscienza erronea non toglie, di per sè, la colpa: per eliminare la responsabilità la coscienza deve essere incolpevolmente erronea. E' curioso che nell'autore manchi questa distinzione, tra errore colpevole o incolpevole, assorbita da quella di coscienza invincibilmente erronea o vincibilmente erronea: "Se la coscienza è così completamente sprofondata nell'errore da non più riconoscerlo e da non aver alcuna possibilità di eliminarlo, essa è invincibilmente erronea; altrimenti, l'errore è vincibile" (p. 92). La prima si deve seguire, la seconda no (p. 93).

Nella Sacra Scrittura, la presentazione è diversa: al centro del suo insegnamento sulla coscienza o giudizio morale dell'intellingenza sta la rettitudine della volontà. Non è la maggiore o minore difficoltà per uscire dall'errore quel che conta, ma il modo colpevole o no in cui si è arrivato ad averlo. L'oscuramento della coscienza è un frutto del peccato: diventeranno ciechi "perché amarono più le tenebre che la luce" (Io 3,19); "pronunziarono menzogne e hanno cauterizzato la propria coscienza" (1Tim 4,2). Siccome l'oscuramento proviene dal peccato, la coscienza vera e retta è il frutto della buona volontà: "prego perché la vostra carità più e più ancora abbondi in conoscenza e pienezza di discernimento, affinché sappiate discernere il meglio, e siate puri e senza colpa" (Phl 1,9-10). Una rettitudine che, nella sua pienezza, può dare soltanto Cristo: "il sangue di Cristo ... purificherà le nostre coscienze dalle opere morte, perché possiamo servire il Dio vivente" (Eb 9,14)[4]. Di recente il Santo padre ha anche insistito sull'argomento: "Non si trova la verità se non la si ama; non si conosce la verità se non si vuole conoscerla "[5].

Certamente, Böckle sa che esiste questo influsso delle disposizioni della volontà; per lui "la coscienza perfetta è quella illuminata dalla fede e vivificata dall'amore" (2Cor 1,12; I Tim 1,5) (p. 85). Arriva ad affermare che "l'intelletto esprime un giudizio infallibile sul bene riconosciuto come scopo della vita, ma per raggiungerlo riceve la sua forza da un amore naturale della volontà per il bene " (p. 86). Ciononostante, nei momenti decisivi, l'autore finisce per dare il sopravvento alla coscienza, senza ulteriori accertamenti circa la buona o cattiva volontà. Così, criticando quella morale della situazione —per cui si considerano valide ma non applicabili al proprio caso le norme generali e universali (per es. non si può uccidere la vita innocente; non c'è divorzio legittimo per i battezzati sposati in Chiesa)—, afferma: "Una coscienza che seriamente credesse ciò (vale a dire, che, nelle proprie circostanze, simili precetti universali, come non uccidere l'innocente, non reggono), sarebbe certo nell'errore. Nel singolo caso si sarebbe liberi da colpa, ma l'ordine oggettivo verrebbe violato" (p. 100). Insomma manca l'autore di sottolineare in modo chiaro la necessità —e la possibilità— dell'assenza di ogni colpa nel giudizio erroneo, per la sua validità. Necessità che invece, oggi particolarmente per la situazione ambientale, il Magistero pone in primo piano: " Se la coscienza morale non è l'istanza ultima che decide ciò che è bene e ciò che è male, ma deve conformarsi alla verità immutabile della legge morale, ne consegue che essa non è un giudice infallibile: può errare (...) Non è dunque sufficiente dire all'uomo "segui sempre la tua coscienza". E' necessario aggiungere subito e sempre: "chiediti se la tua coscienza dice il vero o il falso, e cerca instancabilmente di conoscere la verità". Se non si facesse questa necessaria precisazione, l'uomo rischierebbe di trovare nella sua coscienza una forza distruttrice della sua vera umanità, anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene"[6].

Ci sono anche altri aspetti in cui l'esposizione dell'autore causa qualche perplessità, e non si vede come si possano integrare con la tradizione morale della Chiesa. Così, per esempio la forma in cui tratta dell'azione a doppio effetto (pp. 57-58) Come è noto oggi —particolarmente dopo lo studio di Knauer che, generalizzando i principi del volontario indiretto, arrivò al conseguenzialismo o proporzionalismo[7]- i più validi moralisti diffidano da questo schema, perché può portare ad introdurre una valutazione morale in contrasto con quanto risulta dall'analisi degli elementi dell'atto morale (le intenzioni e le opere, fine e oggetto)[8]. E di fatto, quasi tutti i punti caldi della morale si sono rifugiati là (cooperazione al male, regolazione delle nascite, aborto terapeutico, eutanasia, ecc..). Invece, l'autore ne è entusiasta: "Nella immensa realtà della vita odierna degli stati, delle economie e delle comunità, in mezzo a cui il cristiano è inserito, queste regole sono di una importanza fondamentale per la vita morale" (p. 58). In concreto, nel caso proposto dall'autore —operazione di un cancro di utero ad una donna incinta—, secondo la sua interpretazione del principio del doppio effetto, l'operazione sarebbe sempre giustificata. Invece, d'accordo con la dottrina tradizionale delle intenzioni e delle opere, con la distinzione tra oggetto fisico e oggetto morale, l'operazione non sarebbe lecita se, per es., aspettando qualche tempo il feto si rendesse viabile, potendosi anche salvare la madre (quantunque con maggior rischio).

D'altronde, alcune espressioni dell'autore possono creare dubbi circa la correttezza del modo in cui egli concepisce il rapporto natura-grazia: "Conoscenza naturale è soprattutto quella che si basa in maniera implicita sulla rivelazione della parola nella Bibbia. Questa conoscenza morale dell'uomo a prescindere dalla rivelazione e basata sulla sua natura concreta è già informata dal soprannaturale" (p. 67). "Punto di partenza e scopo di ogni conoscenza naturale e di ogni agire morale naturale è Dio solo nel suo Cristo" (p. 68).

Non può non sorprendere, ugualmente, la forma con la quale Böckle dichiara generiche sia la legge naturale che la legge divino positiva, e la maniera in cui distribuisce tra Chiesa e Stato il compito di definirle: "Dell'applicazione alle situazioni concrete, sociologiche e storiche, deve incaricarsene lo Stato per la legge naturale e la Chiesa per la legge divino positiva" (p. 80). In fondo, Böckle sembra non aver inteso esattamente cosa significa il carattere intrinseco delle norme divine: "In ciò riposa l'oggettività assoluta della legge nonostante l'intimità con la quale inerisce in ogni singolo uomo. Questa concezione ci facilita la comprensione delle proposizioni della legge naturale e della legge di Cristo formulate in maniera universale. In quanto proposizioni valide universalmente ci presentano qualcosa della realtà concreta ma non la sua totalità. La norma universale è cornice, limite, orientamento verso la richiesta concreta di Dio. La norma deve rimaner sempre intatta, ma bisogna pur rispettare la ricchezza dell'essere (del valore) individuale, che oltrepassa l'universale" (p. 83-84). Sono espressioni che danno l'impressione di girar ancora attorno al dibattito medievale degli universali, e fanno nascere il dubbio che l'autore non conosca bene la distinzione tra astrazione logica (dove l'universalità cresce assieme all'impoverimento del contenuto) e astrazione metafisica o intensiva, dove invece l'universale (che non esiste in sè, ma nei singoli) coglie tutta la ricchezza dei singoli in cui sussiste o potrebbe sussistere.

A pag. 95, a proposito dei principi riflessi per risolvere i dubbi di coscienza, afferma: "Da ciò consegue, ad esempio, che se si dubita di aver commesso peccato grave, non c'e obbligo di confessarsi (il dubbio su una circostanza lascia liberi riguardo al dovere che ne consegue)". A parte il fatto che non si capisce come il dubbio sulla commissione possa essere una circostanza, la dottrina tradizionale distingue per la soluzione di questo caso, secondo che si tratti di una persona di coscienza delicata o lassa; per la prima vale quanto dice l'autore, ma nel secondo caso la presunzione sta a favore dell'effettiva commissione, con l'obbligo quindi di confessarsi.

E' interessante la maniera in cui Böckle ripropone l'etica della situazione, con la distinzione tra norme universali e situazioni strettamente individuali, prospettando qui il tema di come la vocazione personale rientra nell'agire morale. Comunque, la soluzione non sembra soddisfacente, poiché l'autore rimane sempre prigioniero dell'universale logico. Infatti, rilette queste pagine, allo scopo di determinare in che può consistere "l'essere proprio e determinato" del singolo, non si trova altro che: doni singolari della grazia (che evidentemente non rientrano nella natura e possono anche essere al di sopra della grazia comune nei fedeli), inclusa persino una rivelazione privata; e, in secondo luogo, "la storicità della situazione", che non si vede come può andare oltre la natura nel senso metafisico o intensivo, senza ricadere nella vecchia morale della situazione, più volte condannata dalla Chiesa.

Non vogliamo concludere senza insistere sul fatto che nell'opera esistono, come si è detto all'inizio, punti di comprensione della morale veramente interessanti e in pieno accordo con la tradizione, per es., quando si parla del carattere sacramentale della morale cristiana (p. 9), del suo rapporto con la dogmatica (p. 13), dell'importanza che ha l'orgoglio nel disordine della natura caduta (p. 21), delle virtù (pp. 29 e ss.), ecc. Ma questo non evita che, nell'insieme, l'opera sia causa di confusione, per i suoi punti deboli sui quali —come è logico in una lettura critica— ci siamo più soffermati.

 

                                                                                                              R.G.H. (1985)


 

                                                                                                                       ANEXO

 

BOCKLE, Franz

I concetti fondamentali della morale

(t. o.: Grunbegriffe der Moral)

1. Este libro es una breve exposición sistemática de los puntos centrales de la moral general: la idea cristiana de hombre, esencia y fundamento de la moralidad, ley, conciencia y pecado. El libro no tiene la entidad de un manual propiamente dicho, es más bien una síntesis o compendio.

2. Muchos aspectos del libro son sustancialmente correctos. El planteamiento de la vida moral cristiana como unión con Cristo (p. 9); la insistencia en que la moralidad ha de ser informada por la vida sacramental (pp. 9 y 34); lo que el autor escribe sobre la necesidad de la confesión sacramental (pp. 135-137); su concepción de las relaciones entre teología moral y teología dogmática (pp. 12-13); el tratamiento de la filiación divina del cristiano y la función que se asigna a esta realidad en la vida moral (pp. 25-26 y passim); la superación del formalismo ético (p. 50). La selección y presentación de los textos de la Sagrada Escritura es acertada. En los puntos mencionados no tiene el autor una particular originalidad en cuanto a la sustancia, pero la exposición es por lo general atractiva.

3. Existen también algunos puntos confusos y otros erróneos o que al menos pueden inducir a error. Los enumeramos a continuación:

1) Concepción poco equilibrada del "carácter esencialmente histórico del hombre en cuanto imagen de Dios" (pp. 22-24). El autor no subraya que el mismo concepto de historicidad presupone la existencia de un mismo núcleo idéntico esencial, que es el que vivió el pasado, vive el presente y vivirá el futuro. Si no hubiese ese momento de identidad a través del tiempo, no habría historicidad, sino ruptura: algo deja de ser cuando algo nuevo comienza a ser. En las pp. 22-24 no hay errores propiamente dichos, pero sí un principio de desequilibrio que se notará en el tratamiento de la ley natural, como explicamos a continuación.

2) En p. 63 se cuestiona la validez de las normas de derecho natural alegando la historicidad del hombre y de su conocimiento moral. En p. 64 se resuelve el problema afirmando que sólo pertenecen a la esencia inalienable y necesaria del hombre "quelle strutture ontologiche che l'uomo stesso ancora afferma (realizzandole) anche quando le nega espressamente" (p. 64). Estas son: la espiritualidad, la libertad de decisión y su ser en relación a los demás y a Dios. Sólo las exigencias éticas que puedan derivarse de esas estructuras —los principios primeros— son inmutables y válidas en todo tiempo. "Ma adesso sappiamo anche che si tratta in tal caso di determinazioni molto generali e altamente astratte" (p. 65). "Con tali esigenze (...) al singolo non è stato ancora detto alcunché di molto concreto" (p. 65). Esos principios generalísimos han de aplicarse a las circunstancias concretas y variantes de manera siempre nueva (p. 65), aunque algunos se empeñen en apegarse a fórmulas viejas, "specialmente quando determinate formulazioni sono state introdotte anche nelle dichiarazioni del magistero ecclesiastico, ad es. nella dottrina degli scopi del matrimonio" (p. 66).

Aunque es cierto que la ley natural no es un conjunto de determinaciones concretísimas obtenidas deductivamente a partir de unos principios primeros, es claramente erróneo no dejar claro que normas éticas como los preceptos del Decálogo son universalmente válidas, a la vez que ciertamente señalan al individuo criterios morales bien concretos.

3) En conexión con este punto de vista, y relacionada también con la aceptación de una modalidad de la teoría de la opción fundamental, está la idea del autor de que en la práctica generalmente no se puede obtener certeza sobre si un acto es pecado grave o leve (cfr. pp. 118-123, especialmente pp. 121-122). Existen criterios que pueden permitir concluir o suponer que hay pecado grave (p. 121), pero "generalmente non si perviene ad una certezza oggettiva su ciò che è effettivamente accaduto" (p. 121). La razón es que "l'azione esteriore, come può essere giudicata oggettivamente, è solo un debole indizio" (p. 122) de la actitud fundamental en relación a Dios. "Una mancanza esteriormente grave potrebbe anche essere espressione di un amore falsamente inteso che in sè non deve affatto significare alcun allontanamento da Dio" (p. 122).

Es cierto que sólo Dios puede juzgar con toda certeza el interior del hombre, y que a veces es difícil distinguir el pecado mortal del venial, porque además de la materia se han de tener en cuenta las condiciones subjetivas del agente; pero es erróneo, tanto en la teoría como en la práctica, convertir esa dificultad en regla general. De hecho no sólo el confesor, sino incluso el mismo penitente de ordinario está seguro de que ha cometido un pecado grave. No hay duda de que el adúltero, quien mata para robar, quien sin una razón proporcionada no asiste a Misa el domingo, etc., comete un pecado grave. El punto de vista que el autor mantiene en estas páginas es contrario e incluso contradictorio con cuanto él mismo ha afirmado a propósito del objeto moral, y sólo puede entenderse en conexión con alguna de las formas filosóficas o teológicas de lo que Max Scheler llama Gesinnungsethik (ética de la opción moral de fondo o de la disposición de ánimo) en la sección III de Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik. En ese contexto Gesinnungsethik se contrapone a Erfolgsethik (ética de los resultados). Es decir, el autor quiere distanciarse de una concepción que identificase el bien y el mal con los resultados efectivos del obrar, y por eso insiste —y justamente— en la importancia de la actitud interior. Pero al hacerlo, se aproxima al extremo opuesto, afirmando que la acción externa es sólo un leve indicio de la moralidad (p. 122), lo cual resultaría grotesco si lo aplicamos al adulterio, sodomía, asesinato, graves injusticias terrorismo, etc., cometidos por personas psicológicamente sanas.

4) En las pp. 45-47 el autor hace suya la distinción entre naturaleza y persona propuesta por Rahner y Metz. "Con persona s'intende l'uomo in quanto può disporre e dispone della libertà su se stesso (...) Rahner chiama natura la corporalità vivificata insieme ai rapporti e alle connessioni col mondo circostante" (p. 46). De aquí se sigue la distinción entre "l'atto originario e intelligibile di libertà dell'uomo in quanto tale e poi il suo necessario incarnarsi negli atti umani mediante la natura" (ibidem). El autor aclara que esta distinción no es la tradicional entre acción interna y externa. La natura es expresión de la libertad personal en la materialidad espacio-temporal (p. 46), en cuanto visible (ibidem), aunque a la vez esconde el aspecto personal (ibidem). A través de la natura llega a la persona el influjo e incluso la imposición de lo que le es extraño (p. 47). Por este dualismo, "l'atto conserva quindi nella propia struttura 'una fondamentale e ineliminabile equivocabilità' (Rahner)" (p. 47). Es claro que aquí se encuentra la razón de fondo de lo afirmado por el autor en pp. 118-123 sobre el pecado grave (ver punto 3.3 de esta recensión).

La distinción entre naturaleza y persona aquí propuesta es ajena a la tradición teológica católica, ligada a la profundización en el dogma trinitario y cristológico. La caracterización que el autor hace de esta distinción en pp. 46-47 guarda ciertas analogías con la distinción kantiana entre el sujeto inteligible o noumenico y el sujeto sensible, fenoménico o empírico (cfr. Crítica de la razón práctica, passim). Aunque esta distinción no tiene en este libro las consecuencias que tiene en Kant, sí introduce un principio de dualismo entre el aspecto interior e íntimo, puramente inteligible, de la persona, y el fenómeno manifestación de la persona interior en el ámbito de la experiencia espacio-temporal. Este aspecto exterior o fenoménico puede estar sujeto a influjos determinantes procedentes del medio ambiente y ligados a la corporeidad, de forma que no refleja inequívocamente la disposición moral real de la persona interior. El dualismo que el autor repropone en estas páginas hace imposible el logro de una antropología unitaria, dificulta notablemente la armonía entre las ciencias experimentales y la ética, y puede tener consecuencias incontrolables en el estudio de los deberes morales ligados a la corporeidad (quinto y sexto mandamiento, por ejemplo).

5) Es teológicamente incorrecto poner como ejemplo de duda teórica de conciencia la licitud o ilicitud de ciertos medios para el control de los nacimientos (pp. 92-93), ya que después de la enc. Humanae vitae esa materia no es dudosa, ni objeto del libre debate entre los teólogos.

4. Conclusión.— A pesar de las cualidades positivas enunciadas en el n. 2, las deficiencias de fondo señaladas en los nn. 3.1, 3.2, 3.3 y 3.4 hacen que este libro resulte perjudicial para los estudiantes de Teología Moral, ya que proporciona orientaciones confusas sobre puntos capitales de la moral, tanto desde el punto de vista teórico como práctico (ley natural, pecado y fundamentación antropológica). También es doctrinalmente importante el aspecto señalado en el n. 3.5.

 

                                                                                                              A.R.L. (1985)

 

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[1] La mancata distinzione tra storia "sacra" e storia "profana", che in queste espressioni dell'autore si trasluce, è stata esplicitamente riprovata dall'Istruzione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede del 6-VIII-1984, sulla teologia della liberazione, IX, 3.

[2] Cfr. J. Boyle, Freedom, the Human Person. and Human Action, nell'opera collettiva, diretta da W. May, Principles of Catholic Moral Life, pp. 246 e ss.

[3] R. R. Roach, Moral Theology and the Mission of the Church: Idolatry in our Day, in "Principles of Catholic Moral Life", cit. p. 23.

[4] Non ci tratteniamo sull'argomento; i testi della Scrittura sono molti; vedi, sul tema, R. García De Haro, Cristo y la conciencia  moral, in "Angelicum" 59 (1982), pp. 475-499.

[5] Giovanni Paolo II, Udienza Generale, 24-VIII-1983, n. 3.

[6] Giovanni Paolo II, Udienza Generale 17-VIII-1983, n. 3.

[7] P. Knauer, La determination du bien e du mal par le principe du double effet, in Nouv. Rev. Theologique 87 (1965), pp. 356-376.

[8] Vedi S. Pinckaers, La question des actes intrinsèquement mauvais et le 'proportionalisme' in Revue Thomiste, 1982, pp. 181-212.